Don Chisciotte e la rivincita dei Mori in esilio
1 Marzo 2023Smettiamola di chiamare invisibili i senzatetto
1 Marzo 2023Libri Pubblicato il terzo volume dell’Edizione Nazionale dell’opera omnia. Uscì nel 1917 e fece scoprire lo scrittore senese al grande pubblico. Una cantiere linguistico di sobbalzi emotivi e cifrate allegorie
di Roberto Barzanti
«Io ho sempre avuto poco tempo di voler bene a qualcuno». «La mia anima per aver dovuto vivere a Siena, sarà triste per sempre: piange, pure ch’io abbia dimenticato le piazze dove il sole è peggio dell’acqua dentro un pozzo. E dove ci si tormenta fino alla disperazione». Sono gli attacchi di due delle sessantanove brevi prose che compongono Bestie , il libro di Federigo Tozzi apparso nel 1917 per i tipi dei Fratelli Treves, editori in Milano: fece scoprire lo scrittore senese al grande pubblico. Aveva cominciato a lavorarci fin dal 1912 e lo finì nel tardo 1915, quando già — dal ’14 — si era stabilito a Roma prestando servizio come volontario col grado di caporale nell’ufficio centrale della Croce Rossa. Non era certo uno sconosciuto. Undici prose, confluite poi in Bestie , erano uscite sulla sontuosa La Grande Illustrazion e e non sto a richiamare raccolte di liriche, novelle e articoli. Nel 1913 si era gettato a capofitto con l’amico Domenico Giuliotti nella breve avventura della rivistaccia ultrareazionaria La Torre , che manifestò clamorosamente la sua conversione al cattolicesimo.
Ora Bestie esce quale terzo volume dell’Edizione Nazionale dell’opera omnia di Tozzi, presieduta da Romano Luperini, diretta da Riccardo Castellana e stampata dalle romane Edizioni di Storia e Letteratura, avviata nel 2018 con le novelle di Giovani (a cura di Paola Salatto) e proseguita con Gli egoisti (a cura di Tania Bergamelli). Anche nel caso di Bestie è offerto ai lettori un testo critico, controllato cioè sulle stampe e sugli autografi, per fornire la lezione filologicamente più attendibile e permettere di entrare nel laboratorio della scrittura tozziana. «L’apparato — fa notare Castellana — descrive tutte le fasi compositive correttorie e mostra come, attraverso aggiunte, sostituzioni e soppressioni di brani a volte cospicui, le prose abbiano raggiunto la forma tra prosa espressionista e micro-racconto, che le rende un unicum».
Ognuna delle prose si conclude mettendo in scena, quasi a sigla, una bestia, che non insorge da una propensione al simbolismo e non è neppure debitrice del gusto per il frammento tipico del vocianesimo o assimilabile ad un esercizio virtuosistico da elzeviro o da «prosa d’arte». Se esaminate una dopo l’altra costituiscono una narrazione dotata di unitarietà, anche se non soggetta ad una scansione cronologica. Lo svagato promeneur solitaire semi autobiografico attraversa un natura accogliente o ostile: talvolta opposta all’arcigna prigionia dello spazio urbano, talaltra percepita nella sua abbagliante luminosità metafisica: «Che chiarità tranquille per queste campagne, che si mettono stese per stare più comode! Che silenzi là all’orizzonte e dentro di me!». Un canettaccio bastardo, un pettirosso, un pipistrello, pidocchi, ragnolini, rondini: il bestiario fantastico che s’incontra lungo un itinerario senza meta produce sobbalzi emotivi e cifrate allegorie. Quel divagare assediato dagli impulsi dell’inconscio ha il sapore di un destino indecifrabile che accomuna persone e animali. Tutto ciò che è esterno si ripercuote nei moti dell’anima: lessema da Tozzi spesso usato in accezione psicofisiologica, non cristiana. Un cammino dell’anima, appunto, si svolge, in quadri a fosche tinte o sullo sfondo dorato di viste serene. «Con Bestie — aggiunge Castellana — Tozzi passa da una concezione attardata della letteratura al più ampio orizzonte del modernismo italiano ed europeo: quello di Pirandello e di Svevo. Il bestiario medievale diventa perturbante rassegna di forme di esistenza altre, irriducibili alla coscienza. Le bestie sono piuttosto i correlativi oggettivi di un’alterità assoluta che il personaggio-uomo può solo intuire, mai rappresentare per intero: sono l’immagine di una ferinità e di una natura non assimilata alla vita umana e dunque, anche, proiezioni dell’inconscio e del represso». La curatrice Valentina Sturli ha condotto un lavoro di eccezionale acribia, esaminando, in mancanza del perduto manoscritto, tre testimoni (due dattiloscritti di cui uno incompleto e l’esigua anticipazione di frammenti rammentata) tutti conservati nell’Archivio Contemporaneo G. Bonsanti del Gabinetto Vieusseux. Bestie costituisce un momento di svolta nella poetica tozziana sia dal punto di vista del contenuto che da quello della lingua. L’autore perviene ad un particolarissimo impasto, che fonde italiano letterario e dialettale.
«La mia edizione vuole sottolineare — dice la curatrice — questa fase di passaggio. Si fonda sulla Treves del 1917, ristabilendo però a testo tutti quei passi e quelle varianti che erano stati, sulla base dei dattiloscritti conservati, modificati, assai parcamente, da Glauco Tozzi nell’edizione Vallecchi (1961-1988) in quanto ritenuti «banali sviste» o «errori di punteggiatura». Ma quelle varianti non devono essere messe a testo, poiché Tozzi le ha scartate e ha avuto modo di autorizzare l’edizione Treves, da assumere quindi come sua ultima volontà. L’apparato critico dà conto di tutte le varianti, permettendo di ricostruire il percorso creativo. Vengono riportati diversi brani — spesso piuttosto estesi — presenti nei dattiloscritti, poi cassati dall’autore e non apparsi nell’edizione 1917, né in quelle successive.
È un modo per entrare nel«cantiere aperto» di Tozzi e comprendere come lavorasse a limare, togliere, asciugare il dettato». Il risultato finale fu una «formazione di compromesso tra frammentazione e totalità». Prendo ad esempio i due attacchi citati in apertura, rilevando cambiamenti minimi. Nel primo dopo «qualcuno» il testo proseguiva: «;e mi domando quando finalmente, mi verrà voglia di dirgli mi ami?». È così eliminato un ovvio patetismo. Quanto al secondo, che terminava con «dove l’antica bellezza tormenta fino alla disperazione», la stereotipata «antica bellezza» cede il posto ad un’impersonale soggettività. E sono recuperati pezzi lungotti e espulsi per intenzioni rimosse. Ne propongo solo uno: «Non voglio lasciarmi sedurre dalla mia anima! Questi incanti, come se una musica passasse continuamente attraverso a me; questi sogni che paiono allucinazioni deliziose, io non li voglio più. Lo dirò alla mia anima che la tovaglia, dove rimangono le briciole del pane che mia madre mangia, sono tutto per me». Chi applica categorie psicanalitiche freudiane rivisitate, magari, alla luce delle teorie di Francesco Orlando e alle innovazioni di Ignacio Matte Blanco vi individuerà un’eloquente convalida.
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