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28 Gennaio 2024La storia I giorni a Firenze del poeta britannico che fu anticipatore della Beat GenerationSosta d’obbligo i tavolini delle Giubbe Rosse tra dialoghi e sbronze. Lontano dagli intellettuali
di Francesco Gurrieri
«My name is Dylan Thomas» disse il giovane poeta del Galles ad Arnaldo Pini, incontrandosi a un tavolo delle Giubbe Rosse. Era una mattina d’estate del 1947. Ora, la recentissima pubblicazione del volume Dylan Thomas, Visione e preghiera e altre poesie scelte , a cura e traduzione di Tommaso Di Dio (Giacometti & Antonello, Macerata), ripropone l’attenzione sulla potenza visionaria di Thomas (Swansea, Galles 1914 — New York 1953), la cui poesia «è abitata dal desiderio inesausto di una vita più intensa, in cui morte e vita, tenebra e luce si stringono in un circuito senza fine». L’introduzione a questo importante volume con nuove traduzioni dall’inglese, è anche l’occasione per accostarsi alla poesia di Thomas con un taglio critico che consolida precedenti ed apre, nello stesso tempo, a nuove «ragioni della sua poesia».
«Nel 1934 — ci avverte Di Dio — uscì il suo libro d’esordio, 18 poems , che gli diede la prima celebrità. Era un libro che univa fonti disparate, la Bibbia e James Joyce, giochi di parole e William Blake, John Donne e Sigmund Freud, il tutto fuso in un estremo vitalismo che fu interpretato erroneamente da una parte della critica del tempo. Si parlò di scrittura automatica, di imitazione del surrealismo o, peggio, di una scrittura frutto di un’adolescenza inconsapevole. E invece era proprio il contrario: Thomas usava la poesia dell’adolescenza per esplorare la condizione umana (…) e non cambierà idea nemmeno molti anni dopo, quando gli eventi della vita — tre figli, un matrimonio devastato da continui tradimenti e la gravità crescente del suo alcolismo — lo avranno in qualche modo mutato, ma non avranno scalfito la radice». «Contengo in me una bestia — dirà Thomas di se stesso — un angelo e un pazzo». Concluderà la sua vita in un ospedale di New York, nel novembre del 1953, a trentanove anni, dopo tre giorni di coma, compromesso dalla polmonite, dall’asma e dall’alcolismo.
Purtroppo, in questo ultimo volume su Dylan Thomas non si accenna al soggiorno fiorentino. Così, soccorre ad abundantiam , l’importante volume di Arnaldo Pini, Incontri alle Giubbe Rosse (pubblicato da Polistampa per Fiorenzo Smalzi nel 2000), dove, insieme a Landolfi, Loffredo, Luzi, Malaparte, Montale, Parronchi e Traverso c’è, appunto, Dylan Thomas. Arnaldo Pini, figlio del Signor Gino, proprietario delle Giubbe, aveva studiato al liceo, alla facoltà di Lettere e sui tavoli del caffè storico (nato come Birreria Reininghaus nel 1897), dove erano nate Lacerba e La Voce .
Nel 1947, Thomas fa il suo viaggio in Italia. Aveva sposato Caitlin MacNamara nel ‘36, aveva evitato il militare per la precarietà della sua salute (lavorerà per la BBC), aveva girato già un po’ il mondo e nella primavera, proveniente da Roma, sarà a Firenze. Più precisamente a Villa Del Beccaro di Mosciano, a Scandicci; da qui scriverà agli amici: «Ora sulle colline sopra Firenze, a circa otto chilometri dal centro, abbiamo trovato un’adorabile villa nelle pinete: meraviglioso giardino con usignuoli, cipressi, terrazze a colonne, ulivi, boschi profondi e selvaggi, un vigneto tutto nostro e una piscina, tutto piacevolissimo (…), la cantina è piena di vino. Viviamo di asparagi, carciofi, arance, gorgonzola, olio d’oliva, fragole e molto vino rosso».
Dunque, assolutamente comprensibile che il trentatreenne poeta, scendesse a Firenze, portandosi nel locale intellettuale, internazionalmente più noto. A quel tempo, in piena estate, Arnaldo Pini stava preparando un esame di filosofia sull’Estetica di Croce, ed ebbe a sedersi vicino all’unico cliente che a quell’ora (le nove del mattino) era a un tavolo, con cinque bottiglie di birra già vuote. Così testualmente racconta il curioso evento il Pini:
— Please… per favore, cosa stai leggendo? Mi alzai, mi avvicinai e gli porsi il libro.
— Here is it .
— Oh, well, you speak english. Prese il libro e sillabando lentamente, lesse il nome dell’autore e il titolo e poi mi domandò:
— Who is Croce ? Sorridendo gli risposi:
— An italian philosofer and… a great chatterbox (un gran chiacchierone). Thomas scoppiò in una gran risata e con la sua bella voce, dal timbro baritonale, aggiunse:
— Oh, i filosofi e i critici, quando scrivono di estetica, generalmente, sono incapaci di comprendere ogni forma d’arte. Quasi sempre sono privi di sensibilità . Dette queste parole, si piegò verso di me, mi tese la mano, mi invitò a sedere al suo tavolo e si presentò dicendomi:
— My name is Dylan Thomas . La conversazione durò a lungo, col faticoso italiano di Thomas e con l’inglese un po’ scolastico di Arnaldo e quando venne fuori che l’universitario delle Giubbe Rosse conosceva piuttosto bene le sue poesie fino a recitargliene alcune a memoria fu un tripudio. Volle sapere cosa ne pensasse della sua poesia ed ebbe per risposta:
— Per dirlo, come chiedi, con due sole parole, definirei quella tua poesia cosmica, a beautiful cosmic poem .
Si incontrarono nuovamente e spesso nel luglio ai tavolini delle Giubbe. Quando non era ubriaco ebbero colloqui bellissimi, soprattutto su poeti inglesi, che Arnaldo aveva letto da poco, di Vaughan, di Auden, Spender, Hopkins ed Eliot. Spesso, riferisce il Pini, Thomas tornava, si ubriacava e si confinava in un angolo della prima sala (dov’erano i quotidiani internazionali) . Nonostante i poeti fiorentini avessero grande stima per lui (Bigongiari e Montale gli tradurranno alcune poesie), lui resterà abbastanza freddo con loro; ma anche perché — vuole la tradizione — Luzi, Parronchi, Landolfi, bevevano solo caffè e di conseguenza preclusi alla birra e all’amicizia. Solo Rosai ebbe attenzioni per Thomas, perché commosso dalle sue ristrettezze economiche e quelle della moglie Caitlin, così gli prestò un’ingente somma di denaro che, sembra, non gli fu mai restituita. Bruciato dal sole ferragostano di Firenze partì per l’Isola d’Elba. Qualche anno più tardi, a New York, all’ospedale Saint Vincent, sarà stroncato da un infarto. Si spense così la sua voce, ma non la sua poesia, alla quale saranno riconosciuti anche i prodromi della Beat Generation di Jack Kerouac.
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