di Francesco Semprini
Una catena di subappalti rende l’individuazione degli ostaggi quasi impossibile ma ostacola anche la loro liberazione. I 240 prigionieri catturati nel terrificante blitz del 7 ottobre sono la carta più preziosa nelle mani dei jihadisti, l’arma più potente. È così dall’inizio dell’attività del movimento islamico, da sempre impegnato nella cattura di soldati lungo la frontiera, per poi scambiarli con detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Ed era anche il principale obiettivo dell’attacco di un mese e mezzo fa.
Fare più prigionieri possibile, soprattutto militari. La presenza del rave party ha in qualche modo cambiato i piani dei terroristi. Non ne erano a conoscenza, come hanno ricostruito i media israeliani sulle base di alcune testimonianze di militanti catturati. E si sono ritrovati con un bottino di civili molto più numeroso del previsto.
E a questo punto è cambiata anche l’organizzazione. Era chiaro che le forze di sicurezza dello Stato ebraico, i corpi scelti di esercito e Shin Bet, si sarebbero scatenati in un caccia senza tregua. Dividerli in molti piccoli gruppi e portarli nelle profondità dei tunnel non bastava. Perché quello sarebbe stato il primo obiettivo nel mirino. L’ala militare di Hamas ha a quel punto pensato ai “subappalti”. Nuclei di due, tre, al massimo quattro sequestrati da affidare a gruppi affigliati minori, che a loro volta li davano in gestione a famiglie considerate di fedeltà assoluta, distribuite in tutta la Striscia. La ricerca a questo punto diventava “casa per casa” in un territorio di 360 chilometri quadrati, con 2,3 milioni di abitanti, e centinaia di migliaia di edifici. Una caccia impossibile.
La strategia dei jihadisti ha pagato in questi 45 giorni di guerra. Ma ha anche le sue controindicazioni. Il livello di devastazione portato dai raid dell’aviazione, il colpo di falce delle colonne corazzate che hanno spezzato in due la Striscia, il costante martellamento dei centri di comando e di comunicazione, per lo meno di quelli individuati, hanno balcanizzato la resistenza dei Hamas e dei gruppuscoli alleati. Anche se a Tsahal, l’esercito israeliano, non è riuscito il colpo al cuore, nel quartiere degli ospedali, di Al-Shifa, i jihadisti conducono adesso una guerriglia spezzettata, a colpi di razzi anti-tank contro i carri e blindati che penetrano a mano a mano verso il centro di Gaza City.
I due capi principali Yahya Sinwar e Mohammed Deif, il capo dell’Intelligence e mente degli attacchi del 7 ottobre, restano in sella, con tutta probabilità dopo aver ripiegato a Sud del Wadi Gaza, a Khan Younis. Ma hanno sempre più difficoltà a comunicare con le brigate impegnate a tenere il fronte a Nord. Lo stesso portavoce del movimento, Abu Obeida, ha ammesso di aver «perso i contatti» con alcuni gruppi «che gestiscono gli ostaggi». Una frase che ha fatto venire i brividi ai negoziatori. E che rivela in maniera quasi candida le difficoltà della “resistenza”, triturata giorno dopo giorno dalla spaventosa potenza di fuoco del nemico.
Ma la “confessione” di Abu Obeida rivela anche altro, forse più decisivo per gli sviluppi futuri. E cioè una frattura all’interno di Hamas. L’ala militare, rimasta nella Striscia, è sempre più insofferente nei confronti dell’ala politica, che nel comodo degli appartamenti nei grattacieli di Doha, in Qatar, conduce le trattative attraverso le autorità dell’Emirato. Le brigate in prima linea hanno subito perdite insostenibili, fino al 50 per cento degli effettivi. Centinaia di militanti sono stati catturati, e torchiati dagli israeliani. E la liberazione dei compagni nelle galere non sembra la priorità dei capi politici, Ismail Haniyeh e Khaled Meshal, impegnati in tour nella regione soprattutto per farsi riconoscere come veri rappresentanti dei palestinesi.
L’ala militare, dicono fonti sia arabe che israeliane, ormai tratta «per conto suo». Vuole accelerare sul rilascio degli ostaggi. Per ottenere i cinque giorni di tregua, di respiro, indispensabili a reggere ancora la battaglia. E per portare a casa un risultato minimo, buono per il morale e per il consenso all’interno di una popolazione stremata e sotto choc.
La svolta nei negoziati dipende anche da questo. Ma qui arriva la complicazione. Gli ostaggi vanno individuati in un territorio devastato, con le comunicazioni a pezzi. I gruppuscoli affigliati alzano il prezzo e lo fanno anche le famiglie “fedeli”, alla disperata ricerca di cibo, acqua potabile, gasolio e medicine.
Recuperare gli ostaggi potrebbe richiedere più tempo del previsto e per questo l’ala militare ha rilanciato e si è detta disposta a liberarli soltanto «cinque o dieci alla volta», per ogni giorno di tregua. Lo stop ai combattimenti servirà anche a rintracciarli. Dopodiché riprenderà il bagno di sangue. I vertici israeliani, e ieri Benjamin Netanyahu lo ha ribadito, non si fermeranno. Andranno anche nel Sud, a Khan Younis, fino al confine con l’Egitto. Ma questa è un’altra storia.