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22 Settembre 2022“Le donne iraniane lottano per la libertà il regime le arresta perché ha paura” Azar Nafisi
Azar Nafisi, 67 anni, ci è passata di persona. Anche lei è vittima della rivoluzione islamica, in esilio dal 1997. Dopo diciotto anni di insegnamento di letteratura angloamericana all’università di Teheran è stata espulsa per le restrizioni del governo di Khomeini e degli ayatollah che imposero la legge teocratica nel 1979. «Con una collega ci siamo presentate alle riunioni senza velo e ho detto che non l’avrei indossato. Così sono stata costretta a lasciare», racconta. Da quell’esperienza è nato il suo libro più famoso: «Leggere Lolita a Teheran« (Adelphi, 2004) dove racconta come ha proseguito l’insegnamento in modo clandestino, ogni giovedì, per nove giovedì, con sette delle sue migliori studentesse, leggendo e discutendo i libri messi all’indice: Lolita un tabù, il Grande Gatsby il Grande Satana, Madame Bovary una meretrice. Per Azar Nafisi e le sue studentesse la letteratura diventa l’ancora di salvezza, una via di fuga dalle atrocità e da quei momenti terribili. In Italia il suo ultimo libro, appena pubblicato da Adelphi, è «Quell’altro mondo», che conclude la trilogia costituita da «Leggere Lolita» e «La Repubblica dell’immaginazione» (2015). Azar Nafisi è figlia di Ahmad Nafisi, sindaco di Teheran in tempi laici e di Nezhat, la prima donna ad essere letta al parlamento iraniano. Ha studiato all’estero, in Inghilterra dall’età di 13 anni, e poi negli Usa, dove si è laureata in letteratura inglese e americana. Dove è tornata nel 1997, scappando dall’Iran con il marito e due figli e dove ha insegnato alla Johns Hopkins University di Washington. Lei è la voce dell’Iran laico, quello che gli ayatollah temono di più, perché parla il linguaggio dei diritti e della democrazia. La raggiungiamo al telefono in America, per farci spiegare, per capire con lei se le proteste di questi giorni nelle strade dell’Iran per la morte di Mahsa Amini (la 22enne massacrata di botte dalla «polizia morale» per non aver indossato il velo correttamente) sono qualcosa di diverso e cosa sta veramente accadendo.
«Sono più di quarant’anni, da quando è iniziata la rivoluzione islamica, che le donne iraniane combattono per tornare libere. Il regime ne ha arrestate a migliaia, le ha picchiate. Oggi il modo in cui le donne iraniane appaiono in pubblico è diventata una affermazione dell’aspirazione degli iraniani di liberarsi del regime. E questo è il motivo per cui il regime reagisce con questa violenza. Hanno perso la legittimazione e la credibilità e l’unica voce che rimane sono le armi. Il regime ha molta paura».
Lei ha scritto che se si vuole sapere quanto è libera e aperta una società, è necessario guardare a quanto sono libere le sue donne. Ora si stanno togliendo il velo, lo bruciano nelle strade, si tagliano i capelli in segno di protesta. Sta cambiando qualcosa?
«Le donne e gli iraniani in generale non sono liberi. Ma la cosa che mi dà speranza è la costanza con cui combattono. Sanno che rischiano 16 anni di galera, eppure si tolgono il velo. Chi va in strada a protestare sa che potrebbe non tornare a casa la sera, arrestato o morto. Eppure, ci va lo stesso. Il fatto è che il regime ha creato la mitologia per cui la libertà per le donne è una cosa del mondo occidentale. Ma è una bugia».
Nel suo ultimo libro «Quell’altro mondo» lei racconta come la rivoluzione ha confiscato la storia dell’Iran, la sua cultura e la sua tradizione, insieme all’identità di ogni individuo.
«Confisca è la parola giusta. Se guardi alla storia dell’Iran, la lotta di liberazione delle donne risale all’inizio del secolo scorso. Le donne in Iran hanno ottenuto il diritto di voto prima di alcuni cantoni della Svizzera. Poi è arrivato Khomeini a dire che il diritto di voto per le donne è prostituzione. Le donne in Iran combattono non perché sono occidentalizzate, ma perché vanno indietro nel tempo a quando erano libere. Mia nonna apparteneva a quella generazione. Mia madre è stata una delle prime donne a entrare in parlamento. Ci sono state due ministre donne, donne pilota. Il resto è mitologia».
Cosa la indigna di più?
«Che una persona che vive in America, al sicuro, dica che il velo o i matrimoni combinati sono “la cultura” dell’Iran. Non è vero. In ogni altra parte del mondo se fai sesso con una bambina di 9 anni finisci in galera. Nella supposta “nostra cultura” finisce in galera chi si oppone e denuncia lo scempio di stupri coniugali con le bambine. È stata la legge islamica ad abbassare l’età del consenso dai 18 ai 9 anni. E lo stesso vale per il velo. L’ipocrisia dell’Occidente è dire che fa parte della nostra cultura. Sarebbe come dire che il fascismo e il comunismo fanno parte della storia europea. O che la schiavitù fa parte di quella americana».
Cosa significa invece il velo?
«È il simbolo dell’oppressione. Dice che i capelli e il corpo e il volto delle donne sono così sessualmente pericolosi per gli uomini che devi farli scomparire, sotto il jihab o il burka. Nessuno si può permettere di dirlo. In Iran il velo dovrebbe diventare facoltativo. Ma il regime non vuole perché ha paura che lasciando libertà pochissime donne lo metterebbero. E sarebbe per loro una delegittimazione enorme».
Cosa dovrebbe fare l’Occidente?
«Non dovrebbe cadere in questa trappola. Il regime iraniano per governare ha dovuto confiscare la storia del Paese e riscriverla. Ma il fanatismo non è mai stato così forte. E queste leggi non c’erano prima. Sono estremamente indignata dal comportamento dell’Occidente. In Iran la gente muore nelle strade e all’Onu il presidente iraniano Ebrahim Raisi riceve onori, stringe mani, incontra Macron. Non fanno altro che legittimare questa gente».
Lei a suo tempo ha trovato rifugio nella lettura e nella scrittura. La letteratura ha veramente questo potere?
«Grazie alla letteratura ho potuto scrivere la mia realtà, con i miei occhi e non con quelli del regime. È incredibile e fantastico per me quanto i giovani iraniani amino i libri. I loro idoli sono Carl Popper, Hannah Arendt, Vaclav Havel, Margaret Atwood».
Tutti pensatori e scrittori che hanno fatto dell’ideale liberale e della democrazia il loro faro. Lei dice che tra i diritti umani dovrebbe essere aggiunto anche il “diritto all’immaginazione”. Come si fa a immaginare un mondo diverso quando si rischia la vita per una ciocca di capelli che esce da un velo?
«L’immaginazione è pericolosa per i regimi totalitari. È la cosa che temono di più. Putin, Trump, gli ayatollah: ogni regime totalitario si fonda sulla menzogna. Gli artisti, gli scrittori, i creativi cercano sempre l’essenza delle cose, il cuore della verità, per questo li hanno sempre uccisi, torturati, incarcerati».
Nel suo mondo ideale come è la Repubblica dell’Immaginazione?
«È il luogo dove non ci sono limiti di razza, religione, genere, lingua. È universale e personale, pubblica e privata. E crea ponti tra le culture».