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3 Novembre 2023di Sami al-Ajrami
La snervante attesa al confine per sapere se si è nella lista: passa soltanto chi ha un passaporto estero
RAFAH— Nella piazza antistante il valico che segna il confine fra Gaza e l’Egitto c’è chi ride di gioia e sollievo, perché il suo nome è sulla lista dei titolari di passaporti stranieri finalmente liberi di lasciare la gabbia umana in cui si è trasformata la Striscia: 7mila in tutto, ma ne convocano circa 500 al giorno. E fra questi c’è chi si dispera anche se fa parte dell’elenco: perché costretto a lasciarsi indietro familiari, colleghi, amici.
Come Lama, 30 anni, nata a Sofia da madre palestinese e padre bulgaro: unica della sua famiglia a possedere la doppia nazionalità e dunque abilitata a partire. A Gaza lascia la mamma Nadya, il marito e due figli. La decisione, difficilissima, è stata presa dopo notti insonni a discuterne, per volontà di tutti: «Qualcuno deve sopravvivere».
Chi non trova il suo nome in lista è spaventato, frustrato, deluso. Come la “brasiliana” Shared che affida a un video il suo sfogo: «Anche oggi nessun cittadino brasiliano è sulla lista degli stranieri. Se non ci uccidono le bombe, moriremo di fame prima che ci lascino andare». Nonostante la vicinanza, neanche i 50mila abitanti di Gaza con doppia nazionalità palestinese-egiziana possono per ora lasciare la Striscia: l’Egitto non è fra le 60 nazioni che hanno ottenuto l’uscita dei loro cittadini.
Le chiamate alla rappresentanza del Paese a Ramallah, in Cisgiordania, si susseguono. Ma, racconta Fatma, avvocata di 40 anni, i funzionari continuano a ripetere che per ora non c’è niente da fare: «Le richieste saranno esaminate al momento opportuno, dicono. Ma quando arriverà questo momento?».
Ci sono poi coloro che anche se non sono cittadini di altri Paesi, vivono comunque legalmente all’estero dove studiano, lavorano, pagano le tasse. Gente come Fadi, sua moglie e i tre figli tutti con un visto valido sul passaporto palestinese per tornarsene in quel Canada dove hanno casa e impiego. Anche lui tempesta di telefonate l’ambasciata di Ottawa, ricevendo cortesissime rassicurazioni. Ma per ora difficilmente i loro nomi approderanno sulla lista: «Controllo ugualmente ogni sera nella speranza che la mia famiglia sia stata inclusa. E ogni volta è un’amara delusione».
Infine c’è Amal, tedesca-palestinese di 50 anni: dopo molte liti con i rigidi funzionari e mille ripensamenti, ha rinunciato ad andarsene perché dovrebbe separarsi dal marito e dai due figli maschi già grandi e sposati, lasciandosi indietro pure i nipotini bebé: «Che me ne faccio della vita, se coloro che amo rischiano di morire?». Sia pur terrorizzata, ha deciso di condividere con loro un presente fatto di fame: perché anche se nuovi e più numerosi camion di aiuti in entrata stanno aumentando, le razioni non bastano mai. E di bombe: che possono colpire ovunque e in qualsiasi momento, anche in quel Sud dove l’esercito israeliano ha spinto a evacuare buona parte della popolazione e ormai, dopo aver quasi completamente circondato Gaza City, si prepara a intensificare le sue operazioni attorno alla capitale. E non si capisce se permetterà ad altri civili di passare o meno.
Rashid, la via costiera, sembrava essere l’ultima arteria ancora aperta per spostarsi a meridione. Fino a ieri si passava ma poi un gruppo di profughi è stato falcidiato: «C’erano cadaveri di uomini e donne sul bordo della strada», ha raccontato qualcuno passato ore dopo. Una visione a cui ci si è ormai tristemente abituati, ma la loro incomprensibile morte ha provocato altra confusione e terrore. Intanto i due milioni di persone prive di passaporti o visti che gli permettano di sperare in un futuro prossimo fuori da Gaza, vivono una sorta di giorno della marmotta: quotidiana lotta per la sopravvivenza, sempre uguale da più di tre settimane. Ogni mattina ci si alza all’alba – a patto di essere riusciti a dormire – per cercare pane, acqua, benzina: che non bastano mai.
(testo raccolto da Anna Lombardi)