Giorgia Meloni si risente molto quando le viene rimproverata la modesta cultura istituzionale del partito che presiede e la sua difficoltà nel vedere bene la differenza tra guidare una forza politica e guidare il governo di tutti.
Convinta per educazione sentimentale che le capacità di leadership si misurino sulla scala Mercalli della prepotenza e che ogni ostacolo politico debba essere spianato con la ruspa, come del resto già pensava il suo amico-nemico Matteo Salvini, Meloni non si è posta il dubbio che l’elezione di un membro della Corte costituzionale dovesse essere risolta con mezzi diversi dall’uso della forza. Il voto di ieri sulla Consulta, chiuso con l’indicazione ai parlamentari della destra di votare scheda bianca per provare invano a mascherare un flop evidente, non è un inciampo matematico, cioè una conta riuscita male e finita in ritirata strategica. È uno smacco politico, figlio di una mentalità che spinge Meloni a ritenere che anche i membri del massimo organo di garanzia costituzionale possano essere designati a colpi di maggioranza.
Lo stile della casa è questo, ma è proprio quando la presidente del Consiglio si imbatte nelle regole di istituzioni terze per natura che si fa ancora più palese. In questa bulimia di conquista persino la Corte costituzionale diventa un fortino da espugnare, come la sezione di un partito avversario o un ente parastatale da lottizzare. È come se nel manuale politico di Meloni confronto e dialogo fossero tutt’al più una gentile ed eventuale concessione dall’alto, magari in cambio di una assurda pretesa di benevolenza dell’opposizione. Sarebbero invece, in certi specifici casi, un obbligo: un’esigenza pensata e voluta dai padri costituenti nel disegnare poteri e contropoteri della Repubblica.
Quanto Meloni sia distante da una visione simile lo prova il fatto che attribuisce la responsabilità della musata presa in Parlamento non all’incomprensione di questa grammatica, bensì a quegli esponenti infedeli di FdI colpevoli di aver spifferato all’esterno i contenuti della chat nella quale si progettava il blitz per arrivare all’elezione di Francesco Saverio Marini. Per lei la disfatta è una roba di “infami” e traditori da stanare, più romanzo criminale che romanzo costituzionale. Per venire a capo dei suoi problemi il Libanese le sarebbe più utile di Calamandrei.
Quando la politica è concepita sempre e solo come un belluino conflitto amico-nemico, specialità che da quando è a Palazzo Chigi Meloni rimprovera spesso ai suoi avversari ma nella quale eccelle come pochi, è naturale che non ci sia coscienza della funzione degli spazi comuni delle istituzioni, né il gusto democratico di coltivarli e preservarli dalle scorrerie. Per questo Fratelli d’Italia insegue una riforma costituzionale, il cosiddetto premierato, che trasformi leelezioni in una riffa di Carnevale dove chi abbatte la pentolaccia a bastonate arraffa tutto e il governo possa muoversi senza l’ingombro del Parlamento e senza limiti di agibilità. Per questo, parlando di cose già successe, ha eletto alla seconda carica dello Stato Ignazio La Russa, a sua volta convintissimo che sia normale parlare quasi quotidianamente dalla presidenza del Senato come dal palco di un comizio di partito. Non è che La Russa non sappia come si comportavano i suoi predecessori, non gli interessa. Non è nemmeno malafede. La terzietà è una postura che gli è geneticamente estranea, perché quando cresci in una famiglia politica che si fa vanto di essere fuori dall’arco costituzionale, anche quando poi ci rientri, nell’arco, il dna non lo cambi.
L’opposizione, adottando una tattica d’aula comune e senza defezioni, ha fermato i piani di Meloni e ottenuto un risultato importante. Per una volta potrebbe legittimamente esultare.
Potrebbe. Ieri i due principali leader delle minoranze, Elly Schlein e Giuseppe Conte, erano attesi alla sala Capitolare del Senato per la relazione della fondazione Gimbe. Gli organizzatori, forse ottimisti o forse ignari degli ultimi sviluppi, avevano riservato loro due sedie vicine. Schlein si è accomodata dove previsto. Giuseppe Conte ha evitato di andarsi a sedere vicino alla segretaria del Pd ed è rimasto in piedi, lasciando libera la sedia che portava il suo nome sullo schienale. Con Schlein non c’è stato nemmeno un saluto.
Anche nel giorno in cui Meloni inciampa, e mentre la sua maggioranza appare sempre più malferma, il capo del Movimento 5 Stelle ci ha tenuto a mettere a verbale, con un piccolo ma ostentato gesto simbolico, che una coalizione alternativa non esiste.