Mia nonna pensava che Venezia galleggiasse sull’acqua. Ogni tanto tornava alla carica, mi chiedeva come fosse possibile. Il pensiero evidentemente la tormentava. Non aveva tutti i torti. Se ci chiediamo che cos’è un’isola, forse risponderemo che è un’anomalia, un’eccezione. Un’impossibilità fatta realtà. Un problema, un nodo concettuale. Non siamo necessariamente dei filosofi per esprimerci così. Il fatto è che le isole sono geografie filosofiche. Sono sempre sorprendenti.
Non è raro o inopportuno incontrare la terra quando si naviga, prima o poi dovremo pur accostare: esploriamo gli anfratti della costa, ci avviciniamo e allontaniamo da questa in cerca di un approdo. Ed ecco che ci ritroviamo al punto di partenza: era un’isola! Per decenni la Bassa California è stata rappresentata come un’isola sulle prima carte geografiche – Isla California. Il lunghissimo braccio di mare che la separa dal continente non poteva, proprio non poteva essere un fiordo.
Che cosa accade? La navigazione genera abitudine, crea aspettative: dopo tutte queste onde, giorno dopo notte dopo giorno, ci attendiamo sempre e soltanto ancora onde – acqua che lascia il posto ad altra acqua, com’è logico che sia. Perché logico significa comodo. E invece, come dal nulla, ecco che sbuca un’isola. Letteralmente dal nulla: la curvatura della Terra cela tutto dietro l’orizzonte miope della nave, e anche l’isola più alta e impervia può trapelare solo a poco a poco, col contagocce (o contasassi?). Così Fajal nelle Azzorre, arrivando da Ovest: da quando l’abbiamo avvistata a quando abbiamo potuto preoccuparci della risacca sulla sua costa sono passate ancora otto, dicasi otto interminabili ore su e giù e su e giù per le creste, ore drogate in cui il triangolo del suo cono vulcanico si è dipanato con esasperante metodo – conservava la forma, cambiava di dimensione: non se ne poteva più. Ma quale che sia il tempo dell’avvicinamento (che per gli atolli a fior d’acqua potrà essere invece brevissimo e quindi pericolosissimo) non riusciamo a farci una ragione, diventiamo cocciuti hegeliani incapaci di accettare l’irrazionale: che ci fa tutta questa terra dove dovrebbe esserci solo acqua?
Il mondo sarebbe talmente più semplice se non ci fossero le isole. Sicuramente dormiremmo più tranquilli se non sapessimo che ci sono. Lo confesso: ogni tanto il pensiero di Ventotene, della sua pura e semplice esistenza, mi tiene sveglio la notte. Non che voglia tornarci, andare a trovare un conoscente, immergermi nel suo sole e nel suo mare, respirare i suoi fiori. Semplicemente esiste, e tanto basta a piantare una spina nel mio cervello.
Questo per ipotizzare che forse un certo pensiero bimodale, semplificatore, fa da sfondo alle nostre ruminazioni geografiche. Ci piacciono i confini netti, ci piace dire pane al pane, ci piace riordinare la terra come se fosse un puzzle. Orbene, le isole sono paradigmi geografici; quasi stereotipi, caricature della geografia. Se vuoi spiegare un’entità geografica, è tanto più comodo partire da un esempio-isola.
Il comune di Pontassieve dovrà sguinzagliare agrimensori e trigonometri per delimitare il suo confine; i quali si porteranno appresso teodoliti, bussole, carte geografiche. Alla fine di un lungo processo certe delegazioni si incontreranno e si stringeranno la mano vicino a un cippo: qui è Fiesole, laggiù è Pontassieve. Invece l’Asinara, per dire, non ha bisogno di nessuno per ricordare agli altri chi è: qui sono Asinara, lì no (indicando il mare). Che arroganza! È così che nel pensiero semplificatore le isole diventano ingombranti. Perché ciascuna di esse rappresenta l’intera visione della geografia; ogni isola un mondo. A qualcuno l’ebbrezza geografica darà poi alla testa – non c’è bisogno di aver letto Carl Schmitt per rendersi conto che c’è qualcosa di molto diverso, di molto profondamente diverso nella visione del mondo di Albione. La Britannia sarà grande quanto si vuole, resta un’isola nella mente anche di chi tra i suoi abitanti non ha mai visto il mare.
Per uno scherzo storico, le isole rivestono oggi un’importanza enorme, un’attenzione che non hanno richiesto, e di cui non si rendono ben conto. Oggi che la terra smargina amministrativamente nel mare le isole generano enormi territori attorno a sé stesse, diventano preziose, ambite collane di perle geopolitiche. Si addossa loro una responsabilità territoriale che forse non erano pronte a sostenere. Londra mantiene una nutrita guarnigione alle Falkland, Parigi manda il presidente in Nuova Caledonia. A migliaia di chilometri di distanza le isole tolgono il sonno alle rispettive capitali. Ma anche vicino a casa la minima scossa ha grandi ripercussioni: le richieste d’indipendenza della Corsica o della Sardegna sembrano sicuramente meno sorprendenti di quelle che emanassero, che so, dall’Umbria o dalla Borgogna.
Costeggiando sotto Roma, rotta a Sud-Est, prima o poi si rivela il Circeo. Come per Fajal, assaporerete la lenta emersione dall’orizzonte. Ma non cercate di passare tra la costa e il monte. Come per la Baja California, finirete con lo spiaggiarvi. E tuttavia una verità si nasconde nell’illusione dell’Isola-Circeo. Il livello del mare sale, e salirà sempre di più. Vedere il Circeo come un’isola è vederlo come sarà tra qualche secolo. Un’isola del futuro: la distanza spaziale annulla la distanza temporale.
Se le isole ci fanno riflettere o sognare, ci assistono anche nel navigare; senza per questo diventare meno poetiche. Le ventimila isole del Pacifico possono venir viste come costellazioni marine che hanno organizzato i viaggi delle popolazioni oceaniche – viaggi di colonizzazione ma anche di commercio, di scambio culturale, di pesca, di guerra o di semplice visita; ma pur sempre su lunghissime distanze in un immenso mare vuoto. Talmente fondamentale è il pensiero dell’isola, talmente insostituibile il loro ruolo di punto di riferimento nella navigazione, che la Micronesia ha popolato il mare di isole immaginarie, gli etak, da usare come segnaposti per registrare l’avanzamento delle canoe rispetto alle stelle. Ogni barca, muovendosi, sposta di continuo le etak, una danza lenta e inebriante. Così, le isole sono una riserva di pensieri, il gioco ironico di un dio geografo. Sicuramente un’anomalia poetica, di fronte alla quale ogni ragione, anche la stessa Ragione, deve capitolare.