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di Aldo Cazzullo
Le elezioni nel Regno Unito hanno sempre qualcosa di solenne, di inesorabile. Un sistema elettorale che non cambia da secoli, partiti che si chiamano allo stesso modo dai tempi della regina Vittoria (i conservatori anche da prima), exit-polls che azzeccano quasi alla perfezione il numero dei seggi. Soprattutto, maggioranze chiare. L’uninominale secco, con collegi piccoli da centomila elettori, consente davvero ai cittadini di scegliere. Cinque anni fa, valanga conservatrice. Giovedì, valanga laburista. In realtà, non è stato un cambio repentino, ma la fine di un ciclo. La politica britannica non è schizofrenica come la nostra, ha vissuto nell’ultimo mezzo secolo solo tre fasi: diciotto anni di conservatori, tredici di laburisti, altri quattordici dei conservatori. Ma se i primi due cicli furono segnati dal carisma di due leader (amati ma anche detestati), Margaret Thatcher e Tony Blair, questa volta i Tories pagano una lunga sequela di debolezze e di errori. Nel 2010 David Cameron non ebbe la maggioranza assoluta (per la prima e ultima volta nel dopoguerra). La conquistò nel 2015, ma lo sciupò con il pasticcio del referendum sulla Brexit: mossa pensata male e gestita peggio. Boris Johnson ha intuito che il suo spazio politico era quello del Leave, ma i suoi limiti anche morali hanno condannato il suo partito. I Tories hanno perso le elezioni con la pessima gestione della pandemia, che ha innescato una spirale di inflazione, scioperi, proteste che solo il Labour forse potrà domare.
I l nuovo premier, Keir Starmer, vince innanzitutto per demeriti altrui. L’unico, vero merito dei laburisti è stato darsi una leadership centrista e riformista. Sino a cacciare dal partito il velleitario Jeremy Corbyn, che contro Johnson li aveva portati a una sconfitta storica: nel 2019 il Labour aveva perso collegi che vinceva dai tempi della Grande Guerra.
Il risultato di giovedì non è isolato, anzi conferma una legge non scritta. Nelle democrazie occidentali, mai, dicesi mai, la sinistra ha vinto le elezioni su una linea radicale. A Londra, i pansindacalisti Foot e Kinnock hanno preso nasate, finché non è arrivato Tony Blair. A Washington i democratici sono andati alla Casa Bianca con due centristi, Clinton e Biden, e lo stesso Obama esprimeva una radicalità più nella sua storia personale che nella sua politica economica, in continuità con quella espansiva di Bush dopo la crisi del debito. In Germania i socialdemocratici non hanno vinto con Lafontaine, che infatti se ne è poi andato nella Linke, ma con Schröder, il cui slogan era «Die neue Mitte», il nuovo centro, e con Scholz, che si è presentato come «la nuova Cancelliera», insomma l’erede (finora non degnissimo) della Merkel. Forse si può considerare una parziale eccezione il Mitterrand del 1981, che pur con una storia personale tutt’altro che gauchiste prometteva ai francesi la fuoriuscita dal capitalismo; ma dopo meno di due anni divenne il più severo custode del rigore monetario, talora con eccessi di zelo (la regola del 3% sul rapporto deficit-Pil uscì dai suoi uffici). In Italia il centrosinistra ha vinto le politiche solo con un democristianone come Romano Prodi, che nel 1996 aveva all’Economia l’ex governatore della Banca d’Italia.
Eppure in questi giorni la sinistra italiana, più che allo scialbo Starmer, sembra guardare con entusiasmo al Nuovo Fronte Popolare francese. Che, al di là della suggestione da Anni 30 e da resistenza al fascismo, è in realtà un puro cartello elettorale, composto da forze che hanno ben poco in comune sulla politica estera e sull’economia, destinate a dividersi un minuto dopo l’ingresso nell’Assemblea Nazionale. Se Marine Le Pen e Bardella non avranno i seggi per governare, i socialisti cercheranno di fare un accordo con Macron, e gli Insoumis, gli irriducibili insorti di Mélenchon, resteranno all’opposizione in vista delle presidenziali.
Intendiamoci: un certo tasso di radicalità, diciamo pure di populismo, esiste in tutte le democrazie moderne, ed è giusto che sia rappresentato in politica. L’esperienza di Rifondazione comunista dimostra che i radicali è meglio averli dentro la tenda che fuori. Lo stesso Corbyn, cacciato dalla porta, è rientrato dalla finestra, vincendo il collegio di Islington North solo contro tutti; e nel partito si riaffacciano i temuti fratelli Milliband, studiosi e cultori del marxismo. Il pensiero critico ha ragione di occuparsi pure della sinistra riformista, e non solo per il catastrofico errore di Blair in Iraq. La terza via, pur avendo investito nella sanità pubblica poi trascurata dai conservatori — il mitico Nhs, National Health Service, è un disastro —, non è riuscita a invertire la tendenza mondiale: spaventose disuguaglianze sociali, perdita del potere d’acquisto dei salariati, declino del ceto medio; e il fenomeno odioso dell’impunità fiscale dei veri ricchi e dei padroni della Rete. Non a caso, Starmer ha detto con chiarezza: servono soldi per finanziare scuole e ospedali; li troveremo nelle plusvalenze, cioè nella City — che infatti non è entusiasta —, non nei risparmi del ceto medio.
Questo la sinistra italiana non l’ha ancora detto. La sinistra italiana è quella che, dopo la stentata vittoria del 2006, per prima cosa aumenta le aliquote Irpef ai suoi stessi elettori, con il paradosso per cui oggi lo Stato considera ricchi da tassare quasi al 50% capifamiglia che guadagnano 50 mila euro lordi all’anno. Alle politiche, ricordiamolo, si vota di più che alle Europee; e si vota innanzitutto sulle tasse.
L’alleanza che si intravede a sinistra può essere facilmente ridotta dagli avversari alla caricatura di un fronte Anpi-Askatasuna-Gay Pride-Ilaria Salis. Detto con molto rispetto per la memoria della Resistenza, l’energia dei centri sociali (che però non dovrebbe mai portare a forme di violenza), i diritti della comunità Lgbt, il movimento per la casa (che però non dovrebbe occupare case altrui o assegnate ad altri), tutto questo prepara il terreno per una tranvata memorabile alle prossime politiche. A prescindere dalla prova di governo della destra, tutt’altro che eccelsa.
Ovviamente, quell’alleanza avrà bisogno anche di una forza di centro, che dia rappresentanza ai sindaci, alle forze civiche, ai cattolici, ai tanti italiani che oggi non si riconoscono in un partito. Ma non si tratta solo di aggiungere una gamba a un tavolino traballante. Si tratta di individuare un programma, un linguaggio, una comunicazione che non soltanto non spaventi il ceto medio, ma lo rappresenti, lo protegga, gli dia una prospettiva.
Il voto inglese e in parte quello francese confermano una novità: per la prima volta da molti anni, i giovani guardano con interesse a sinistra. Cercano anche diritti e valori in linea con il loro stile di vita, che non è esattamente Dio patria famiglia. Ma cercano soprattutto opportunità e sicurezze. Un’istruzione dignitosa, un lavoro pagato decentemente, trasporti efficienti, un vero sistema sanitario pubblico di cui ogni famiglia, prima o poi, ha bisogno; e una risposta concreta al cambio climatico. Starmer ha vinto concentrandosi su questi temi, senza ubbìe ideologiche, senza straparlare di «lobby ebraiche», senza fare salti di gioia per le vittorie russe in Ucraina, piegandosi sul solco dei bisogni e dei legittimi interessi delle persone. Quando poi il sistema elettorale funziona, come nel Regno Unito, la politica può ancora cambiare le cose, non necessariamente in peggio.