Prima di quella sera non era mai accaduto nulla di simile e dopo di allora nulla di analogo si sarebbe più ripetuto. Erano le 20,05 del 30 aprile 1993 e davanti all’Hotel Raphael, da 15 anni residenza romana del leader socialista Bettino Craxi, si era radunata una folla di persone, spinte da passioni politiche diverse: alcuni vicini al Pds (l’ex Pci) e altri vicini all’Msi. Da mezz’ora ritmavano cori ostili al leader socialista («Sui-ci-dio, sui-ci-dio») e quando Craxi uscì dalla porta, su di lui e sulla sua auto piovve di tutto. Monete, sassi, pezzi di vetro, pugni e colpi di casco contro la carrozzeria dell’auto blu, banconote sventolate. E urla: «Bettino, Bettino, il carcere è vicino!», «Sei fi-ni-to».
Certo, da 14 mesi la magistratura di Milano indagava intensamente sull’esteso sistema di corruzione che coinvolgeva l’intera sfera pubblica. Certo, Craxi era un “antipatico” ed era tutto fuorché un “piacione” e tuttavia quella sera la contestazione della politica andò oltre ogni limite precedente. Al di là del legittimo sospetto sul fatto che l’ex presidente del Consiglio potesse essere “colpevole”, quella scena primitiva fissò una «unilateralità di persecuzione» come l’ha definita un uomo prudente come Giuliano Amato. In altre parole, Craxi venne identificato e “punito” come capro espiatorio per la indiscutibile degenerazione partitocratica e affaristica che riguardava l’intera vita pubblica italiana.
È legittima la domanda che si rincorre da decenni: quell’assedio fu uno spartiacque? Fu l’inizio della stagione dell’antipolitica, il battesimo del populismo italiano? Una prima risposta è suggerita da una sequenza eloquente: l’indomani mattina sui principali giornali, così immersi nello spirito del tempo, di quell’originale assedio non si trovò quasi traccia. Ma negli anni successivi la distanza dagli eventi ha fatto affiorare un fenomeno davvero anomalo: è come se molti avessero vissuto due volte quella giornata. La prima volta con una percezione e la seconda, anni dopo, con una consapevolezza opposta, spesso altrettanto sincera della prima. Eloquenti diverse testimonianze. Quella di Sergio Staino, disegnatore ed ex direttore dell’Unità: «Mi vergogno della gioia che ho provato quando lanciarono le monetine contro Craxi, quello fu il primo atto di anti politica della storia repubblicana». Piero Vereni era uno studente universitario, il 30 aprile 1993 era avanti al Raphael e scrisse: «Giuro che non mi ero accorto di stare facendo la storia, abbiamo fatto bene a tirare le monetine e dovevamo fare di più. L’uccisione rituale del sovrano è una pratica comune a tutte le culture». Vereni, anni dopo, è diventato docente di antropologia all’Università di Tor Vergata e nel 2020 ha rivisitato il suo percorso: «Fui intrappolato in quel modo di vedere, senza prendere coscienza di quel che stava accadendo, di un giustizialismo divenuto senso comune». Ha molto valore la riflessione di Massimo D’Alema, il primo “figlio del Pci” che abbia guidato il governo del Paese: «Non fu una manifestazione organizzata ma si espresse un sentimento, fortemente alimentato da una campagna martellante contro i partiti e contro la politica. Un miscuglio di giustizialismo e di qualunquismo antipolitico. Due cose che messe insieme diventano terrificanti».
Naturalmente la sera del 30 aprile, a ripercorrerla bene, non si può ridurre alla manichea contrapposizione politica-antipolitica. Da oltre un anno il pool di Mani pulite aveva scoperchiato un malaffare diffuso sino a quando, il 29 aprile 1993, erano arrivate davanti alla Camera sei richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi. Quattro di quelle richieste erano state bocciate, proseguendo una tradizione disonorevole: nei precedenti 55 anni, in undici legislature su 1225 richieste di autorizzazione, ne erano state bocciate 960, accampando sempre un presunto “fumus persecutionis”.
Precedenti da casta che pesarono. Ma nei mesi precedenti contribuirono ad alimentare il (sincero) furore popolare anche il conformismo di alcuni grandi giornali che avevano idolatrato Antonio Di Pietro («il pm contadino», «l’eroe», «il fascino discreto dell’uomo onesto») e sorvolato su alcune forzature delle inchieste. Aveva contribuito negli anni anche la trasformazione di Craxi nel «cinghialone», un nemico sfidato da milioni di persone che in tante, ripetute piazze avevano aspramente contestato, a diverse riprese, l’installazione degli euromissili e il taglio della scala mobile. Piazze democratiche nelle quali Craxi era sempre stato il nemico.
Il 30 aprile si andò oltre. Il leader del Pds Achille Occhetto aveva tenuto un veemente comizio in piazza Navona e alla fine un centinaio di militanti si era trasferito verso il vicino hotel Raphael. Se ne accorse un ventenne camerata, Delio Andreoli, che telefonò a Teodoro Buontempo, deputato duro e puro dell’ex Msi e gli disse: «I comunisti stanno qui, schierati per una contestazione feroce…». Buontempo si precipitò e, prima di arrivare, si fece cambiare una banconota da diecimila lire, ricevendo in cambio tantissime monetine.
E così quando Craxi esce dal suo albergo, rifiutando di svignarsela dalla porta posteriore come gli consigliavano gli agenti della scorta, viene investito dalla celebre grandinata. Un’ora dopo, intervistato in tv da Giuliano Ferrara, Craxi dirà: «Per la prima volta nella mia vita ho provato sulla mia pelle lo squadrismo». Anni dopo chi è riuscito a restituire il senso simbolico di quella serata davanti al Raphael fu l’esponente di un partito, il Pci, che più aveva combattuto politicamente Craxi. Disse il vecchio Emanuele Macaluso: «In politica la critica e lo sberleffo sono ammessi sempre, ma l’oltraggio no».