di Massimiliano Panarai
Si può essere «illiberali ma democratici»? Nella sua stimolante riflessione di ieri Giovanni Orsina ha preso le mosse da tale quesito per invitare a non eccedere nell’«evocazione strumentale dei mostri» antidemocratici. Una raccomandazione opportuna, specie quando – trasposta al livello della politique politicienne – una parte finisce per compattare i propri elettori “contro” gli avversari assai più che “per” un progetto propositivo di respiro.
Naturalmente la demonizzazione di coloro che votano per le ultradestre rappresenta un errore, non da ultimo perché risulta controproducente, ed esse (camaleontiche come da Dna delle formazioni neopopuliste) si rivelano molto abili nel “dediavolizzarsi”; e lo mostra in maniera esemplare la parabola del Rassemblement National. Tuttavia, nella scelta di archiviare la componente liberale (di cui Orsina è uno studioso importante) per poterle qualificare direttamente come “democratiche” rimangono diversi problemi di fondo. E anche se ricorriamo – come deve essere – alla definizione di liberalismi al plurale, resta palese come la famiglia allargata delle destre radicali non abbia deliberatamente alcuna intenzione, al di là di qualche dichiarazione di rito, di abbracciare una cultura politica liberalconservatrice. Quella, va ricordato, che ha invece identificato a pieno titolo un ambito fondamentale della storia delle democrazie rappresentative.
Proviamo, allora, a passare in rassegna queste problematiche, insieme ai vari (fondati) dubbi intorno al teorema sulla destra illiberale ma democratica. Se non siamo sicuramente – e fortunatamente – in un contesto analogo a quello dei terribili anni Venti del Secolo breve, la situazione odierna presenta però numerose similitudini non trascurabili con la «crisi di fine secolo», che fu particolarmente accentuata in Italia e Francia. Come nella turbolenta fase di passaggio fra Otto e Novecento, il periodo attuale appare caratterizzato da insofferenze più o meno mascherate nei riguardi del parlamentarismo, una crisi di legittimità delle istituzioni e delle élites che le guidano, la richiesta martellante di decisionismi e soluzioni semplificate, la fragilità dei regimi liberaldemocratici e, giustappunto, una serie di populismi in grande ascesa. Una somma di inquietudini che andrebbe affrontata all’insegna del senso di responsabilità, e non fomentata strumentalmente per calcoli elettoralistici. Altrimenti le forze politiche che soffiano su questi fuochi non si rivelano soltanto illiberali ma, scommettendo sulla sfiducia nei sistemi democratici, vanno oggettivamente a favorire – anche non volendo (considerazione che, peraltro, vale unicamente per una minoranza di esse) – le autocrazie nemiche dell’Occidente. E, così facendo, dimostrano di avere un concetto alquanto opinabile, per usare un eufemismo, dell’essenza del principio democratico.
La democrazia rappresentativa richiede un’adesione di fondo ai principi e valori del liberalismo, e dunque la promozione del pluralismo e la tutela convinta dei diritti individuali e civili e di quelli delle minoranze. Mentre le destre radicali ripropongono oggi, in versione postmoderna, un discorso reazionario e anti-illuministico, diffondendo la visione “tradizionalista” di un popolo «unico e univoco», un «soggetto fittizio» in verità (come ha scritto Yves Mény). Oppure deviano l’agenda pubblica su altri piani, col risultato di mantenere una forte ambiguità e di permettere a certe fasce del loro elettorato e dei loro gruppi dirigenti di alimentare forme di intolleranza. Queste destre neopopuliste non posseggono affatto una concezione sostanzialistica della democrazia: la loro è una nozione di tipo solo elettorale, che si esaurisce una volta per tutte nel voto, e di genere identitario (come piaceva a Carl Schmitt). Infastidite dai contrappesi liberali, esasperano il potere monocratico, invocano plebisciti, agevolano la disintermediazione, e spargono ovunque l’ideologia del direttismo democratico, che coltiva l’illusione e il simulacro di una sedicente forma di democrazia diretta per mezzo di una comunicazione polarizzata, personalizzata, disintermediata e istantanea. È proprio grazie alle attitudini comunicative dei (e delle) leader che riescono a risultare credibili nonostante tendano a evocare i problemi assai più che a risolverli. E sempre le loro strategie di «propaganda 2.5» – che ricorrono anche, incontestabilmente e malauguratamente, all’hate speech e a un vasto arsenale di fake news, salvo lanciare il sasso e nascondere poi la mano – consentono di aggirare i paradossi che le contraddistinguono, come quello di continuare a presentarsi quali forze antisistema anche se stanno al governo o esercitano influenze di vario genere. Quello che vogliono le destre neopopuliste è una delega da esercitare ininterrottamente, da cui le nostre società liquide e lacerate vengono sospinte ancor più dentro lo scenario postdemocratico (tu chiamali, se vuoi, «pieni poteri»…). Così, la democrazia liberale diventa uno spazio politico à la carte, da cui attingere esclusivamente quello che è utile ai loro fini. Non si può, però, essere forze politiche “diversamente democratiche”, poiché in questo caso tertium non datur. E, dunque, esse sono sicuramente illiberali, e continuano pure a manifestare una spiccata diffidenza e allergia nei confronti dei fondamenti del paradigma democratico.