Le idee
Spesso, nelle discussioni sul Pd, sembra che si parli di un partito immaginario: si enunciano anche buone idee e ottimi propositi; ma, per lo più, non ci si chiede in quali condizioni sia lo strumento attraverso cui tutto ciò dovrebbe essere realizzato. Si ignora cioè un dato fondamentale, quello che un tempo si chiamava “lo stato del partito”, e non si analizza cosa sia stato, concretamente, il Pd fino ad oggi. Non si possono attribuire le responsabilità di una lunga e costante caduta di consensi solo agli errori (con diverse responsabilità, peraltro) delle varie leadership che si sono succedute: ad essere chiamato in causa è lo stesso modello di partito quale era stato originariamente concepito, con l’idea di democrazia e di partecipazione che lo ispirava. Non si può evocare lo “spirito del Lingotto” e poi sfuggire alla domanda: ma allora, cosa non ha funzionato?
Si prenda la generale (e un po’ ipocrita) lamentazione sulla degenerazione correntizia del partito. Non è certo una novità degli ultimi tempi: si potrebbero citare le numerose occasioni, da Veltroni stesso a Bersani, fino a Zingaretti e Letta, in cui si denunciava il fenomeno della “feudalizzazione” del partito. Ciò che interessa ora è capire perché la mala pianta del correntismo si è rivelata inestirpabile.
Ebbene, la radice va ricercata proprio in quello che alcuni definiscono un “tratto identitario” del Pd, ovvero le “primarie aperte”. E bisogna dare uno sguardo crudo e realistico al modo di funzionare di questo partito. Le ragioni sono presto dette: questo modo di concepire l’elezione diretta del segretario del partito ha svilito negli anni il ruolo della partecipazione degli iscritti e ha affidato l’esercizio della sovranità ad un corpo indistinto e mutevole di elettori, che sfugge ad ogni logica di accountability democratica. Ma soprattutto è un modello in cui convivono plebiscitarismo e feudalesimo: da un lato, una democrazia della disintermediazione (l’investitura diretta del leader, da parte del “popolo delle primarie”: espressione intrisa di retorica populista); dall’altro, il controllo del partito periferico attraverso correnti puramente funzionali alla competizione interna per le cariche pubbliche. Un modello di partito in franchising.
È bene ricordare per intero il meccanismo con cui si svolgono le primarie: ogni candidato- segretario è collegato ad una lista (bloccata) di suoi sostenitori, candidati a far parte degli organismi dirigenti. Sono cioè i candidati-segretario a “fare eleggere” e a “nominare” gli organismi dirigenti, sulla base dei voti che raccolgono (e quindi gli organismi sono privi una propria autonoma legittimazione democratica). Per capire cosa sta accadendo in queste settimane, la parola-chiave è “posizionamento”, di questo o quel capo corrente, o di questo o quel sindaco o dirigente locale: è il momento in cui si contratta la composizione delle liste, espressione di una “coalizione interna” di correnti e subcorrenti, di potentati e gruppi centrali e periferici. Insomma, il correntismo è un dato strutturale del modo di essere del partito, non una malattia che si possa curare con gli appelli alla buona volontà. Peggio, questa logica non ha creato quel tipo di correnti che sarebbero davvero utili ad un partito: aree di cultura politica che si confrontano, espressione di orientamenti diversi entro un quadro condiviso di principi. Questo modello ha impedito lo sviluppo di un vero dibattito politico-culturale nel Pd: perché oggi si lamenta che le diverse tradizioni di cultura politica, le radici del nuovo partito, sono state di fatto oscurate? La risposta è semplice: perché il modo con cui il Pd ha funzionato non ha dato alcun rilievo a questa dimensione. Ci si è occupati d’altro.
Dunque, è inutile deplorare il “correntismo” e promettere che vi si metterà fine: i candidati in campo dovrebbero dire cosa pensano di questo modello di partito e see come pensano diriformarlo. Le possibili soluzioni ci sono: ad esempio, separare l’elezione degli organismi dall’elezione del segretario, per dare ad essi un ruolo veramente deliberativo e rappresentativo, e formarli sulla base di piattaforme politiche votate dagli iscritti. E tornare ad affidare l’elezione del segretario a iscritti e aderenti registrati a tempo debito, in elenchi stabili e certificati, evitando il fenomeno degli elettori last minute che si materializzano ai gazebo. Senza un partito degno di questo nome, attraverso cui idee e proposte politiche vengano discusse ed elaborate collettivamente, e divengano realmente un patrimonio condiviso, è perfettamente inutile invocare “il ritorno tra la gente” o nei bar: chi è che ci va e, soprattutto, cosa andrebbe a dire?