ROMA — Le primarie del Pd come il Tevere di Gallo Cedrone. «Ce servono o non ce servono? », si interroga il corpaccione del partito, ora che perfino Elly Schlein, la segretaria eletta dai gazebo (e cassata dagli iscritti, prima volta nella storia dei democratici italiani) ha derubricato la vicenda a mera questione procedurale. La discussione anima il Pd e per una volta scompiglia le correnti. Scardina i vecchi schemi. La domanda, alla fine, è sostanzialmente una, quasi filosofica: convocare gli elettori per scegliere i candidati alle cariche apicali – sindaci, presidenti di regione o delle province, se saranno resuscitate – è solo un vecchio metodo, peraltro ampiamente bypassato negli anni scorsi nonostante lo statuto, o un «valore fondativo» del Pd, dell’Ulivo, insomma irrinunciabile?
Schlein appunto ha fatto sfoggio direalpolitik :«Le primarie? Quando servono». Finora quasi mai. Certo, senza i gazebo non starebbe al Nazareno, ma sa bene che i 5 Stelle di Giuseppe Conte mal sopportano queste tornate. Anche perché, essendo un partito ancora molto fluido, il più delle volte rischierebbero di uscirne con le ossa rotte. Dunque Schlein per ora le accantona, pur di federare le opposizioni. Applaude Andrea Orlando, ex ministro e grande sponsor della leader al congresso: «Non possiamo trasformare una bega procedurale in un valore fondativo! Le primarie si possono fare oppure no». La pensa allo stesso modo Dario Nardella, che alle primarie nazionali aveva sostenuto Stefano Bonaccini: «Le primarie? Uno strumento». E niente più. Anche perché il Pd nella sua Firenze ha deciso di rinunciare ai gazebo, per virare sulla sua delfina, Sara Funaro, come candidata a sindaco. Infastidendo Matteo Renzi, ma non solo: la dem Cecilia Del Re ieri ha detto di «valutare» primarie extra Pd, a cui l’ha invitata la vice-governatrice toscana (di Iv) Stefania Saccardi. Mentre Tomaso Montanari, che Conte avrebbe voluto sindaco della città del giglio, alla fine dovrebbe fare una sua lista civica.
Ma il dibattito, nel Pd, va molto oltre le mura di Palazzo Vecchio. «Non fare le primarie a Firenze per me è stato un errore», mette a verbale Matteo Orfini, capo della corrente dei Giovani turchi. «Dipende caso per caso, ma quando non si fanno accade più per dinamiche locali che per una volontà nazionale». Di solito, però, «fare le primarie aiuta, sia a correggere eventuali errori dei gruppi dirigenti, sia a mobilitare forze».
Per Alessandro Alfieri, membro della segreteria Pd e big dell’area Bonaccini, «le primarie non sono un dogma. Si fanno se servono ad allargare il consenso. Ma non vanno archiviate perché hanno aumentato la partecipazione; come rilanciarle è un tema su cui interrogarci». Da fuori, si esprime Nicola Fratoianni, il segretario di Sinistra italiana: «Più che discutere astrattamente sul fare o no le primarie, servirebbe intanto una coalizione che abbia una prospettiva politica. Oggi c’è molta difficoltà». Walter Verini, che di Veltroni fu il braccio destro, fa un ragionamento complessivo, sull’identità del Pd, su come si è trasformata in questi 15 anni. «Le primarie aperte sono un valore fondativo. Ma quali primarie? Se c’è un candidato che ha un larghissimo sostegno, può non essercene bisogno. Così come non devono diventare una resa dei conti». Ma il punto, fa notare il senatore, è un altro: «Il Pd delle primarie era il partito degli elettori. E oggi? Non è nemmeno il partito degli iscritti, è il partito delle correnti». Viene da chiedersi che ne pensa Romano Prodi, che il 16 dicembre tornerà a parlare a un palco del Pd dopo anni, insieme a Letta e Gentiloni, alla conferenza sull’Ue convocata da Schlein. Di primarie non si dovrebbe discutere, ma chissà.