ALESSANDRO BARBERA
Nessuno è in grado di fare previsioni su come andrà a finire la trattativa sulla riforma del Patto di Stabilità. Il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti ha chiare però due cose. La prima: non firmerà un accordo sulle nuove regole che non siano più convenienti di quelle vecchie. Se così fosse, alla proposta di mediazione spagnola preferirà il ritorno all’antico e a tutte le attenuanti garantite negli anni all’Italia. Le linee guida decise la scorsa estate dalla Commissione europea, che di fatto hanno permesso all’Italia una manovra in deficit, resteranno comunque in vigore fino alla fine del 2024. La seconda: per essere credibile di fronte agli acquirenti del debito domestico, l’Italia deve riaprire la stagione delle privatizzazioni.
«Più della Commissione europea mi preoccupano i mercati», aveva detto presentando la Finanziaria per il 2024. Ebbene, negli incontri del mese scorso con le principali agenzie di rating il ministro leghista ha promesso la vendita di parte di tre grandi aziende pubbliche: Ferrovie dello Stato, Poste e Monte dei Paschi di Siena. Nell’aggiornamento del Documento di economia e finanza scritto a ottobre ha messo nero su bianco l’impegno a incassi per circa venti miliardi di euro in un triennio. Ferrovie, al cento per cento nelle mani dello Stato, è allo stesso tempo la società più complicata da privatizzare ma che promette gli incassi migliori. Dopo la fusione con Anas, il gruppo controlla la rete ferroviaria e le strade statali. Prima di mettere sul mercato una quota – si ipotizza il trenta per cento – occorre rendere la rete neutrale e permettere così gli investimenti dei privati. Facile a dirsi, difficile a farsi. Il numero uno Luigi Ferraris ci lavora da settimane. Nei piani del governo per arrivare in fondo al percorso ci vorrà un anno e mezzo, forse due. Non si può escludere che alla fine prevalga l’ipotesi più conservativa che prevede la quotazione della sola Trenitalia. La differenza sta nelle stime di incassi. Gianluigi Aponte, che ha di recente acquistato il 50 per cento di Italo, ha sborsato due miliardi. Le stime che si fanno al Tesoro vanno da un minimo di due miliardi per una quota di minoranza di Trenitalia ad almeno cinque nel caso in cui sul mercato andasse una parte dell’intero gruppo. Per fare stime più precise, occorre prima stabilire l’ipotesi tecnica per garantire la neutralità della rete. Matteo Renzi tentò questa seconda strada, che naufragò con la fine di quel governo.
Sarà invece più semplice la vendita di un pacchetto di Poste, che è già quotata. Lo Stato oggi è tuttora primo azionista con il 65 per cento delle azioni. Il 35 per cento è controllato da Cassa depositi e prestiti, la cassaforte pubblica delle grandi società, a sua volta controllata dal governo. Il ministero del Tesoro detiene direttamente poco meno del 30. E poiché Poste sul mercato vale 12,5 miliardi, se il Tesoro cedesse per intero la sua partecipazione incasserebbe 3,7 miliardi.
L’altra cessione che potrebbe partire in tempi rapidi è quella del Monte dei Paschi di Siena, che il governo pubblicizzò nel 2017 per evitarne il fallimento. Otto anni dopo, grazie anche ai forti aumenti dei tassi, Mps è tornata in utile, e dunque appetibile per gli investitori. Nonostante gli impegni presi con l’Europa dai predecessori, fin qui Giorgetti ha preso tempo: nelle sue intenzioni Mps dovrebbe diventare il polo attorno al quale far nascere una terza grande banca dietro a Intesa e Unicredit. L’acquirente giusto per lui sarebbe Banco Bpm, che però non ha mai creduto fino in fondo all’operazione. Anche in questo caso il possibile incasso è di facile stima: in Borsa Mps capitalizza 3,3 miliardi di euro. Lo Stato ne controlla poco più del 60 per cento, dunque le sue quote valgono poco più di due miliardi.
Una volta approvata la legge di Bilancio, per Giorgetti il capitolo privatizzazioni dovrà essere lo scudo principale dalle avversità. Nel 2024 l’Italia deve finanziarsi sul mercato dei titoli per 415 miliardi di euro, cento dei quali per coprire il deficit (fissato al 4,3 per cento), il resto per onorare il fardello dei superbonus edilizi: venti miliardi l’anno di qui al 2027. Negli Anni Novanta la stagione delle vendite si era resa necessaria per avvicinare l’Italia alla moneta unica, questa volta occorre evitare il rischio di uscirne. Gli anni dei tassi zero e della pandemia ci hanno fatto dimenticare di essere uno dei Paesi con il debito più grande del pianeta. La scelta di incentivare a spese dello Stato la ristrutturazione degli immobili privati ha fatto il resto. Ufficialmente il debito italiano è al 140 per cento del Pil, ma nelle conversazioni private Giorgetti ricorda spesso che a quella stima va aggiunto il costo degli incentivi che fa salire il conto totale al 144 per cento. Nel frattempo – seppur gradualmente – verranno meno gli acquisti di Btp da parte della Banca centrale europea, e con essi la tutela di cui l’Italia ha goduto nell’ultimo decennio, da quando Mario Draghi lanciò l’ormai lontano “Whatever it takes”.