Triggerato da Nanda Vigo
15 Dicembre 2022Essere donne in India
15 Dicembre 2022di Angelo Ferracuti
Ho scoperto Joan Didion non troppi anni fa, quando stavo scrivendo un mio libro autobiografico e lessi il fulminante memoir L’anno del pensiero magico (il Saggiatore), dove la mitologica scrittrice americana raccontava la sua storia più intima e dolorosa, il periodo più nero e drammatico della sua vita, cioè quello successivo al 30 dicembre 2003, quando John Gregory Dunne, il marito con cui viveva da oltre quarant’anni, morì all’improvviso. Stavo seguendo una bibliografia di libri sulla perdita, scoprendo un vero e proprio filone letterario, Lettera a D di André Gorz (Sellerio), Diario di un dolore di C. S. Lewis (Adelphi), persino un romanzo di Stephen King, ma il suo mi era sembrato allora quello più letterario e riuscito, il più struggente e delicato, un libro che è anche una idea di letteratura.
Cosa mi aveva colpito di quella memoria intima? Principalmente quella cosa che amo di più in uno scrittore, cioè la capacità di trasformare la vita in scrittura, ma soprattutto non fare della propria esistenza qualcosa di romanzesco e artefatto, di enfatizzato e intellettualistico, ma attraverso lo stile, cioè la letteratura e i suoi espedienti, evitare al contrario che possa diventare finzione. In modo che il lettore, mentre legge la storia, grazie alla tua abilità, possa dimenticarsi di questo autoinganno e del patto narrativo istaurato, ma semplicemente percepire il tuo racconto come un racconto ad alta voce fatto con il massimo della naturalezza.
Fare cioè della scrittura qualcosa di vivente e assolutamente contemporaneo, con il rimorso dell’oralità perduta, che è tradizionalmente tipico di molta letteratura americana, una cosa che mi ha interessato sempre moltissimo, da Hemingway e Sherwood Anderson, Cheever e Carver, e naturalmente in un’icona come Didion dove quella che chiamiamo «la voce» di uno scrittore ha un timbro inconfondibile e forte. Scrittori che non hanno paura della «sincerità» e di mischiare la propria vicenda biografica con l’Epoca, la Storia, la memoria degli altri, i conflitti sociali, scrittori che non stanno solo scrivendo un romanzo o solo raccontando una vicenda, più o meno riuscita, esercitando il mestiere di scrivere, ma che in quel preciso momento stanno anche mettendo in gioco sé stessi, dando la forma dell’esperienza umana all’opera dentro la quale sono immersi.
Così ogni volta che il Saggiatore pubblica un nuovo libro di Didion la curiosità di leggerlo è fortissima, come è accaduto adesso — alla vigilia dell’anniversario della scomparsa, avvenuta il 23 dicembre 2021 — con Perché scrivo. E prima con Nel paese del Re pescatore, Miami, The White Album, Verso Betlemme o nell’autobiografia Da dove vengo. La grande capacità della scrittrice californiana è quella di ibridare vicenda personale, storia collettiva, costume, politica in un’unica narrazione, perché come spiega nella prefazione Hilton Als, critico del «New Yorker» e curatore della raccolta, «la non-fiction di Joan Didion in buona parte si legge come un romanzo. O, più precisamente, ha la forza metaforica dei grandi romanzi», e anche questi pezzi dal tono empatico e colloquiale, scritti tra il 1968 e il 2000, non hanno nulla di giornalistico, ma il ritmo, la scrittura, il parlato della letteratura, e diventano nient’altro che short stories dal vero in tutta la loro soggettiva provvisorietà, dove il processo della scrittura è anche scoperta di un lato profondo e inesplorato della realtà.
Sono pezzi magistrali sulla stampa underground americana, «privi di quelle posture tipiche della stampa convenzionale, per lo più fondate su una falsa obiettività», un tipo di editoria giovanile dai contenuti anche scadenti ma con un pregio assoluto, «parlare in modo diretto ai propri lettori», «un’etica condivisa che conferisce a quei resoconti una considerevole forza stilistica»; oppure descrivono una riunione di ex ludopatici a Gardenia, in Nevada, la capitale del draw poker, un pezzo anche questo del 1968, dentro la mistica dei Giocatori anonimi, affogati nel gioco come i bevitori nel consumo smodato di alcol, tormentati da presenze superiori e istigati da forze segrete.
Sono reportage magistrali scritti in punta di penna, dalle descrizioni perfette come Gita a Xanadu, ambientato a San Simeon, la «fantasmagorica baronia che William Randolph Hearst costruì per se stesso sulle colline bruciate dal sole che sovrastano la costa della contea di San Luis Obispo», il luogo magico della ricchezza e del desiderio assoluto, un luogo «che rifletteva l’idolatria dei ricchi», anche questo scritto alla fine degli anni Sessanta; o il tuffo nella quotidianità irreale di Nancy Reagan, l’allora moglie del governatore della California e futuro presidente Ronald, in quello che sembra il set cinematografico di un reality.
Negli anni in cui scrive questi pezzi per «Life», «Esquire», «The New York Times» e «The New York Review of Books», l’icona del new journalism dallo stile brillante, splendidamente nevrotica, è una donna magra, lo sguardo intenso, la sigaretta in mano fumante, appoggiata a una macchina sportiva bianca quando Julian Wasser la ritrae a Hollywood. Ma il cuore del libro è il rapporto con la scrittura, quella di «una persona le cui ore più assorte e appassionate sono spese nel sistemare parole su un pezzo di carta», i suoi esercizi di stile a «Vogue», le sedute di ritratto con Irving Penn o Bert Stern, l’attenzione per ciò che chiama «tangibile» e «periferico», le cose concrete dell’esistere contrapposte alle idee, alle teorie, quello scrivere nell’incapacità di spiegare, le immagini che «scintillano», la grammatica che diventa un pianoforte da suonare a orecchio. Ma di cosa si scrive bisogna anche saper tacere, essere reticenti, perché quella cosa intangibile e miracolosa può svanire come avviene anche nella fotografia, ci avverte Didion, citando Robert Mapplethorpe, quando afferma: «Se dici troppo, perdi un po’ di quel mistero. (…) Bisogna cogliere la magia del momento. A quello mira la fotografia. Non sai perché, ma accade».
Esemplare anche il saggio su Addio alle armi di Ernest Hemingway, «un uomo per cui le parole erano importanti», ossessionato anche dal loro sopravvivere ai posteri: «la particolarità dell’essere uno scrittore è che qualsiasi iniziativa implica l’umiliazione mortale di vedere le proprie parole stampate. Il rischio di pubblicazione è l’affare più oneroso nella vita di uno scrittore e, anche tra scrittori meno inclini di Hemingway a considerare le parole l’espressione manifesta dell’onore personale», chiosa la Didion. L’incipit di quel libro la interroga, la «cadenza liturgica» di quel paragrafo che nasce dal posizionamento delle virgole, «quattro frasi all’apparenza semplici, 126 parole», qualcosa che produce «quello che deve produrre, un brivido, una premonizione», scrive, qualcosa che ha a che fare anche con la scrittura «acida» dell’autrice di The White Album, una grammatica «dettata da un certo modo di guardare il mondo, un modo di guardarlo senza farne parte, un modo di attraversarlo senza attaccarcisi».
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