L’«happywashing» del Jova Beach
25 Agosto 2022Il parlamento dei nominati, i signori delle liste e i loro vassalli
25 Agosto 2022
di Dario Di Vico
La domanda è immediata ed è sulla bocca di tutti: ma come è possibile che la platea del Meeting di Rimini nel breve volgere di 24 ore abbia applaudito prima Giorgia Meloni e poi addirittura osannato Mario Draghi? La risposta, pensandoci bene, è semplice: in fondo il pubblico del meeting è nient’altro che un campione statistico dell’elettorato italiano che, a dar retta ai sondaggi, assegna un elevato gradimento al presidente del Consiglio in carica e indica come primo partito alle prossime elezioni Fratelli d’Italia. I nostri connazionali, quindi, approvano a maggioranza l’operato del governo e premiano la forza politica che più si è opposta ad esso in Parlamento e nel Paese. Toccherà agli scienziati della politica sciogliere questo dilemma e spiegarci i contorni di quest’Italia dell’ossimoro.
Ci racconteranno con tutta probabilità che c’è una grande distanza tra il giudizio sui provvedimenti adottati da un premier e il riconoscersi pienamente in una forza politica votandola nell’urna. Ci diranno che gli umori di una società individualizzata e polarizzata non possono aggregarsi attorno a una figura tecnocratica seppur di caratura internazionale, ma tendono paradossalmente a indirizzarsi verso personalità più «terrene».
N on a caso Giorgia Meloni ha detto di «aver imparato più da cameriera che da parlamentare». E infine potrebbero anche dirci che ormai da diversi anni gli elettori italiani sono percorsi da un’ansia di nuovismo e, come ha sostenuto ieri sulla La Stampa Giovanni Orsina, sono alla continua ricerca di «un altro prodotto» da provare dopo aver consumato e gettato via Beppe Grillo, Matteo Renzi e Matteo Salvini.
In attesa di capire ancora meglio questo complicato Paese, e aggiornare le analisi sullo scollamento tra discorso pubblico e sottostante antropologico, dall’intervento di Mario Draghi a Rimini ricaviamo però una netta sensazione. È vero che il presidente del Consiglio, come lui stesso ha sottolineato, non poteva che offrire alla platea «una sintesi dei principi, del metodo e dei risultati» dell’azione di governo ma con la linearità del suo speech ha finito per piantare sulla scena politica alcuni paletti dai quali chiunque esca vincitore dalle urne difficilmente potrà prescindere. Ci ha lasciato una legacy pesante e pressoché impossibile da accantonare. Pensate innanzitutto alla collocazione internazionale dell’Italia. È credibile che una maggioranza di centro-destra possa operare un’inversione a U e posizionare il nostro Paese, se non a fianco della Russia, quantomeno in una posizione di finta neutralità rompendo l’accordo tra i partner europei? E che la stessa maggioranza possa anche nel delicato campo della dipendenza energetica cancellare quanto deciso dal governo attuale in materia di diversificazione degli approvvigionamenti e di varo dei nuovi rigassificatori? La risposta è no, per quanto si è ascoltato finora in campagna elettorale il nuovo governo non avrebbe il mandato popolare per agire in discontinuità.
Parlando del sovranismo Draghi ha spiegato con efficacia come la forza del nostro Paese sia indissolubilmente legata all’apertura degli scambi e dei commerci internazionali. «Protezionismo e isolazionismo non coincidono con il nostro interesse nazionale». Ma non coincidono nemmeno con le istanze di quella che è forse la principale constituency elettorale del centro-destra. Sempre ad ascoltare i sondaggisti, infatti, si viene a sapere che nel Nord d’Italia la coalizione di centro-destra risulta in vantaggio in quasi tutti i collegi uninominali con rare eccezioni nelle grandi città. Ovvero le arrideranno i consensi delle Pmi, dei distretti industriali e del ceto medio produttivo che sfruttando la flessibilità delle filiere e una straordinaria capacità di adattamento hanno reagito alla Grande Crisi del 2008-15 inanellando, anno dopo anno, incredibili performance nel campo delle esportazioni. Potrebbe questo popolo approvare l’operato di un governo che dovesse comportarsi in maniera ostile anche con uno solo dei nostri partner renani, che dovesse adottare in economia una filosofia autarchica fatta di vecchie Alitalia e dovesse rendere difficile alle multinazionali straniere investire da noi? Anche in questo caso la risposta è negativa.
Il premier, infine, ha voluto spiegare ai giovani presenti in sala il grande valore rappresentato della scelta fatta da Bruxelles e dagli alleati europei di investire sulla crescita italiana. Non era mai accaduto ed è difficile pensare che qualcosa del genere possa ripetersi con facilità. Il Pnrr è il frutto di questo endorsement e il governo uscente ritiene di aver operato finora con capacità e trasparenza tanto da aver centrato tutti gli obiettivi «di tappa» previsti. Cosa farà l’esecutivo che subentrerà a palazzo Chigi? Potrà pensare di interrompere questo processo o di proporre fantomatiche rinegoziazioni, si prenderà la responsabilità di deludere l’opinione pubblica europea circa la serietà e l’affidabilità dei loro cugini italiani? Anche in questo caso la risposta pare obbligata e l’eredità lasciataci da Draghi altrettanto vincolante. Al punto che devono averlo capito anche gli esponenti più lungimiranti e attenti della coalizione di centro-destra. È ovviamente difficile che possano riconoscerlo apertis verbis nel vivo della campagna elettorale, la tattica sarà quella di cercare di parlar d’altro, di spostare l’attenzione degli elettori su proposte estemporanee e soprattutto sociologicamente conservatrici. Di fornire, insomma, materia per interminabili e innocue liti da talk show .