A chi spetta la decisione sulla vita e sulla morte di Indi Gregory? I filosofi del diritto le chiamano «scelte tragiche».
Sono quelle che si devono assumere di fronte al conflitto tra interessi e valori legittimi e altri interessi e valori ugualmente legittimi: tutti fondati eticamente e giuridicamente ma destinati a escludersi a vicenda. Si tratta di scelte tragiche proprio perché la tutela dell’un diritto porta fatalmente alla mortificazione dell’altro, al punto che Jürgen Habermas definisce «immorali» anche quando necessarie quelle decisioni che sciolgono il conflitto, perché destinate comunque a determinare una condizione iniqua. E ciò in quanto uno dei due interessi, pur se legittimo, risulta fatalmente sacrificato. A esempio a quali pazienti dare la precedenza in caso di scarsità di presidi sanitari (come le macchine per la dialisi). È il più classico dilemma, quello tra diritto alla vita e diritto a una morte con dignità.
È il caso di Indi Gregory, la bambina di otto mesi affetta da deplezione mitocondriale, morta la notte scorsa a seguito dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in un hospice (l’Inghilterra, come ha ricordato Maurizio Mori, è il Paese che ha inventato le cure palliative). Ne è sorta una controversia particolarmente crudele tra il desiderio dei genitori di far sopravvivere il più possibile la figlia e le considerazioni di natura scientifica e giuridica che, a quel desiderio, si opponevano. Tanto più che non c’è stato alcuno che abbia contestato la validità della prognosi infausta e l’appropriatezza delle terapie adottate; o che abbia prospettato la possibilità di guarigione o un prolungamento dell’esistenza oltre un orizzonte assai prossimo.
Di conseguenza, protrarre artificialmente la vita di Indi avrebbe comportato una forma di “irragionevole ostinazione”. Eppure, a fronte di ciò emerge un dato difficilmente eludibile che si esprime attraverso quella domanda: chi deve decidere della vita di una bambina di otto mesi? In altri termini: lo Stato, attraverso i giudici e le commissioni mediche, deve prevalere sulle “opzioni umane troppo umane” di coloro che hanno messo al mondo quella creatura? La scelta più razionale, appunto fondata giuridicamente e scientificamente, può ignorare la voce del cuore dei genitori? Sono domande tremende e delicatissime, che non possiamo in alcun modo mettere da parte. Il grande psichiatra Eugenio Borgna (intervistato da Maria Novella De Luca su questo giornale) ha detto: «È disumano uccidere la speranza, anche se si rivelasse un’illusione». È giusto perché anche la speranza è parte integrante dell’animo umano, lo alimenta e ne viene nutrita: è anch’esso «sostegno vitale» irrinunciabile (San Paolo: spes contra spem). Ancora Borgna: «Gliospedali psichiatrici erano pieni di malati abbandonati considerati dei rifiuti. Pur se curati molti non sono guariti; magari hanno vissuto poco, ma è stata loro restituita la dignità».
E domanda: «Chi ha diritto di decidere se una vita è degna o no di essere vissuta?». È un argomento forte, ma presenta un limite. La decisione di medici e giudici non è stata dettata dalla considerazione che la vita di Indi non fosse degna di essere vissuta o da una concezione materialistico-volgare e nichilista dell’esistenza o — addirittura — dalla volontà di risparmiare sui costi dell’assistenza sanitaria. Medici e giudici hanno valutato piuttosto un dato medico incontestabile e incontestato, ovvero che, in assenza di qualunque possibilità di sopravvivenza e in presenza di sofferenze lancinanti, continuare le terapie avrebbe avuto il solo effetto di prolungare il dolore. È quest’ultimo il grande rimosso della discussione pubblica sulle questioni del fine vita in Italia: la rilevanza che ha nella persona umana, e nel suo corpo e nel suo spirito, il peso della sofferenza non lenibile.
Questa continua a venire considerata, anche all’interno di parte della classe medica, come un effetto collaterale o una conseguenza inevitabile della patologia principale. E non come una patologia essa stessa. Pressoché esauritasi la concezione religiosa che vedeva nel dolore un’opportunità di espiazione e di ascesi, resta un pregiudizio che sottovaluta quali effetti rovinosi abbia sulla dignità della persona, sulla sua capacità di esperienza e di relazione. Per quanto riguarda il corpicino di Indi, dei cui patimenti non abbiamo conoscenza diretta, possiamo solo affidarci alla valutazione della scienza medica.
Chiamata a essere a sua volta compassionevole. Per questa ragione, con inquietudine, approvo la decisione di medici e giudici. Ho scritto questo senza la minima iattanza, sapendo bene che si tratta di questioni da far tremare le vene e i polsi. Ho trascurato ciò che, in questa tragedia, rappresenta un elemento grottesco e, se posso dire, indecente: il comportamento del governo italiano. Resta senza risposta, tuttavia, la domanda sollevata da Borgna. Si dovrebbe trovare una procedura e una cornice di cooperazione che preveda, in casi simili, un ruolo più rilevante dei genitori. La contrapposizione acuta che si è manifestata in tale circostanza tra questi ultimi e i medici è qualcosa che una organizzazione sociale equilibrata non può sopportare senza danni per tutti. Non so dare una risposta precisa, ma ritengo che si debba lavorare nella direzione di una maggiore responsabilizzazione dei familiari. Consapevoli, tutti, che le questioni in gioco sono più grandi di noi: più grandi degli sviluppi straordinari delle biotecnologie, ma anche dello stesso amore di una madre e di un padre.