Così nasce la strategia della leader e della stampa amica per attaccare sul cachet. Rabbia verso l’ad Sergio che si tira fuor i
ilario lombardo
In Italia la presidente del Consiglio può telefonare a due massimi dirigenti della tv pubblica dopo un pasticcio clamoroso e studiare con loro come uscirne. È questo il tassello mancante della storia del monologo di Antonio Scurati, censurato e cancellato dalla trasmissione di Raitre Che sarà. Un’anomalia nell’anomalia del servizio pubblico italiano: un pezzo di storia centrale, che racconta come sono andate le cose dopo la denuncia della giornalista Serena Bortone, e i successivi goffi tentativi della Rai di trovare una giustificazione con la complicità di Palazzo Chigi.
È il pomeriggio di sabato. Meloni si trova di fronte a un’onda di indignazione che dà immediata conferma della percezione, testimoniata dai giornali stranieri, di un governo famelico con i media. La premier deve uscirne in qualche modo, deve smentire la narrazione sull’aria asfittica di censura che sta intossicando la Rai. Non è facile nel giorno in cui una conduttrice denuncia di non aver potuto ospitare il discorso sull’antifascismo di un famoso scrittore.
Le mosse di Meloni per provare a raddrizzare la rotta poggiano su notizie fatte filtrare con una precisa tempistica e una serie di telefonate mirate ai suoi uomini di fiducia in Rai. Due in particolare, che rappresentano parte dell’architrave di TeleMeloni: il direttore generale della Rai Giampaolo Rossi e il direttore del genere Approfondimenti Paolo Corsini. Il post di Serena Bortone è delle otto del mattino. Quello di Meloni, in cui annuncia che avrebbe pubblicato lei il monologo sui suoi canali social, è delle cinque e mezza della sera. È una dichiarazione piena di insinuazioni e di sarcasmo sul compenso di 1800 euro che avrebbe dovuto ricevere Scurati: per ben tre volte in poche righe la premier sottolinea la questione dei soldi. Dopo poco, arriva la risposta di Scurati.
La nota di Meloni è il risultato di un giro furioso di telefonate. La premier compone, tra gli altri, i numeri di due uomini Rai che conosce da anni e che considera amici. Uno è Rossi, che come raccontato da questo giornale una volta ha riunito i parlamentari di Fratelli d’Italia, membri della commissione di Vigilanza, direttamente a Viale Mazzini. L’altro è Corsini, lo stesso che a dicembre aveva svelato la propria fedeltà a FdI, parlando dal palco della festa di Atreju, usando il pronome «noi» per dichiarare la sua appartenenza al partito e criticando la segretaria del Pd Elly Schlein.
In casa Rai è in corso una guerra ai vertici. L’amministratore delegato Roberto Sergio, che per volere di Meloni dovrà lasciare il posto a Rossi tra poco più di un mese, cerca di tirarsi fuori con un colloquio su La Stampa. Non fa nomi, parla di «dilettanti» e mandanti «che vogliono distruggere la Rai», spiegando che avrebbe agito diversamente se solo fosse stato informato.
«Era stato informato», sostengono fonti di FdI. Ed è proprio da queste fonti che riusciamo a ricostruire cosa è successo nelle ore trascorse tra il post di Bortone e quello di Meloni. La premier chiama Rossi e Corsini per farsi spiegare cosa sia successo. Attorno a mezzogiorno, con un comunicato, Corsini aveva provato a smentire che ci fossero ragioni editoriali dietro la censura, e accennato ad aspetti di natura «economica e contrattuale». Una difesa che si sgretola poco dopo, perché il dirigente viene subito sbugiardato da una mail interna di venerdì sera in cui la direzione Approfondimenti comunicava alla struttura e agli autori del programma che invece l’intervento, previsto per l’indomani, sarebbe saltato proprio per «motivi editoriali». Meloni è incredula. Parla con Corsini, chiede perché non abbia usato l’argomento del compenso immediatamente. Le viene risposto che «motivi editoriali» è una formula standard, che si fa sempre così, che la Rai è pura burocrazia. La premier si sfoga con i suoi collaboratori e riferisce com’è andata al telefono con i due dirigenti: «Mi hanno detto che ha pure chiesto un compenso più alto del solito – è la sintesi riferita a La Stampa -. Ho detto che dovevano farne subito una questione di soldi». Nel frattempo, il sito di un importante quotidiano titola con la cifra pattuita da Scurati e con i minuti, quattro, previsti per il monologo. È la perfetta sintesi che serve a Meloni. Poco dopo esce il suo post con tre passaggi allusivi e sprezzanti in poche righe: quando paragona il cachet di Scurati «allo stipendio mensile di molti dipendenti», quando annuncia che sarà lei a pubblicare il monologo e ironizza: «Spero di non dover pagare», e quando attacca «chi pensa si debba pagare la propaganda contro il governo con i soldi dei cittadini».
Nel suo monologo Scurati aveva ricordato le radici post-fasciste del gruppo dirigente di FdI, l’omicidio di Matteotti ordinato dal Duce di cui quest’anno si celebrano i cento anni e il fatto che, a pochi giorni dal 25 aprile, Meloni si stia ancora pervicacemente rifiutando di pronunciare la parola «antifascismo», che è il cuore della Costituzione sulla quale ha giurato. Sono tutti temi che la imbarazzano e la innervosiscono quando le domande le vengono rivolte in pubblico, come ha dimostrato a Bruxelles, dopo il Consiglio europeo. È l’eredità che rifiuta di rinnegare. Preferendo piuttosto contrattaccare. La Rai è militarizzata dai meloniani e il governo ha dato il via libera all’acquisto di Agi da parte di un imprenditore-deputato della Lega, editore di un polo editoriale di destra? «Sono io a essere stata censurata e ostracizzata per anni». Lo ribadisce sui suoi social trattando Scurati come un avversario politico o un giornalista inviso, esponendo lo scrittore al fango della stampa amica. Anche a qualcosa di più, forse, visto che ora è lui stesso a sentirsi «con un bersaglio in faccia». In fondo, basta vedere la prima pagina di Libero, quotidiano diretto da Mario Sechi, ex portavoce della premier. Titolo: «Antifascista a gettone», con la foto gigante di Scurati, e sopra la volgare allusione «Riecco l’uomo di M.».