«La biografia visiva del nostro paese»
5 Maggio 2024Carla Accardi e l’alfabeto della memoria
5 Maggio 2024di Laura Zangarini
La nuova opera teatrale dell’acclamato regista e drammaturgo inglese Alexander Zeldin, The Confessions, arriva allo Strehler di Milano (9-11 maggio) nell’ambito del Festival internazionale Presente Indicativo (fino al 19 maggio). Zeldin è conosciuto per una trilogia dedicata alle disuguaglianze: Beyond Caring del 2014, ritratto di quanti lottano per sopravvivere con salari minimi e contratti senza tutele; LOVE (2016), sulla sofferenza e la dignità delle famiglie senza casa costrette a vivere in alloggi temporanei; e infine Faith, Hope and Charity (2019), che segue le vicende di un gruppo di senzatetto che vedono chiudere lo spazio sociale cui si appoggiano in seguito ai tagli dei fondi governativi. In The Confessions Zeldin ha utilizzato le ore di conversazione con la madre — e con altre donne e uomini suoi coetanei — per raccontare la vita, solo in apparenza ordinaria, di una donna della classe operaia, dalla nascita nel 1943 al 2021. «Non volevo che lo spettacolo parlasse di una vita eccezionale — premette il regista raggiunto via Zoom da “la Lettura” —, lo abbiamo già visto centomila volte. L’intenzione era celebrare il cosiddetto ordinario, perché l’ordinario è straordinario. Penso che il teatro possa cambiare il mondo, che sia davvero in grado di travolgerti. È capace di un percorso verso una maggiore empatia e comprensione degli esseri umani».
Cosa l’ha spinta a scrivere una storia così privata ma allo stesso tempo incredibilmente pubblica?
«Durante il periodo del Covid ero, come tutti, davanti alle migliaia di morti riportate ogni giorno dai “bollettini” trasmessi in tv. Vite che se ne erano andate e scorrevano come numeri sugli schermi. Allo stesso tempo attraversavo un periodo in cui mi interrogavo su come poter portare in scena una vita intera, in una forma che fosse diversa da quella con cui avevo fino a quel momento lavorato. Volevo rompere con quello che avevo fatto, avevo bisogno di lasciare andare ogni sicurezza che avevo come autore. Desideravo scrivere senza finzione, dunque ho intervistato mia madre per otto ore. Mi ha parlato di eventi scioccanti, eventi che spesso una madre non rivela al figlio. Materiali con cui fare teatro, che permettevano di raccontare l’eccezionalità di una vita ordinaria».
Cosa deve «comunicarle» una storia per essere raccontata?
«Una storia, una forma, deve prima di tutto accogliermi, dirmi: “Devi scrivermi”. Deve però anche tirarmi fuori dalla mia comfort zone, farmi sentire “trasgressivo”: questo mi dà la sensazione di essere libero. Raccontare questa storia intima della mia famiglia, trasformare la vita di una donna di ottant’anni in un racconto epico, mi ha permesso di celebrare vite di cui non si parla quasi mai».
Le «vite ordinarie» sono al centro anche dei suoi precedenti lavori…
«Il teatro serve a essere nella vita, non a fuggirla. E questo tipo di “sguardo”, che è il mio, ci sarà sempre, è quello che mi definisce, che definisce un artista».
Che cosa le ha raccontato sua madre?
«Ricordi che avevano la realtà cruda del sogno. Momenti di violenza, di vergogna, di rassegnazione, di gioia. Momenti che ha rivelato a me perché sentiva che ne avevo bisogno come uomo, come scrittore. Il titolo dello spettacolo, Le confessioni, viene dal filosofo Jean-Jacques Rousseau, secondo cui “uomini e donne nascono liberi, poi vengono messi in carcere dalla società”, una visione che mi sembra tristemente contemporanea».
Chi è Alice?
«Il personaggio in scena— il fatto che sia mia madre è solo un elemento importante per capire l’approccio letterario o teatrale, ma di personaggio si tratta — nasce nel 1943, e per tutta la vita prova a “costruire” sé stessa contro il tempo in cui è nata, quindi contro l’estrazione sociale, contro gli uomini, contro la violenza, contro il mondo. C’è in The Confessions una frase molto importante negli anni Settanta: “Il personale è politico”. E la storia di questa donna di famiglia operaia che attraversa il mondo dall’Australia a Londra verso una vita tutta sua è incredibilmente politica».
Quali temi voleva esplorare attraverso questa storia?
«Come diventiamo chi cerchiamo di essere, una questione che mi sta molto a cuore. C’è poi un altro tema, quello della scelta: cosa scegliamo? Cosa non possiamo scegliere?».
Come diventa sé stessa Alice?
«Lottando contro i diversi nemici dei diversi tempi che vive per arrivare a dire, alla fine della sua esistenza: sono diventata la persona che volevo, o almeno ci sono andata vicino. Qualcosa che, credo, ci riguarda tutti. The Confessions è una forma di ritratto, alla luce di esperienze di una vita, di un destino in un certo senso. E la questione del destino è interessante, interroga anche quello che portiamo dentro di noi, la storia delle famiglie ma anche le storie sociali, i traumi e i marchi tramandati di generazione in generazione. Siamo anche la nostra storia collettiva».
Lei è riuscito a diventare chi cercava di essere?
«Ho provato a essere molto sincero nel mio lavoro, a ogni costo, nonostante i dubbi e le paure. So che fino a oggi ho realizzato le mie opere teatrali con molta determinazione. Sono stato anche molto fortunato perché ho avuto un grande maestro, Peter Brook, che mi ha aiutato ad ascoltarmi».
https://www.corriere.it/la-lettura/