“Crediamo che l’Italia abbia più bisogno di carattere, di sincerità, di apertezza, di serietà, che di intelligenza e di spirito. Non è il cervello che manca, ma si pecca perché lo si adopra per fini frivoli, volgari e bassi: per amore della notorietà e non della gloria, per il tormento del guadagno o del lusso e non dell’esistenza, per la frode voluttuosa e non per nutrire la mente. Noi sentiamo fortemente l’eticità della vita intellettuale, e ci muove il vomito a vedere la miseria e l’angustia e il rivoltante traffico che si fa per le cose dello spirito”.
Con queste parole, che ancor oggi conservano una lucida attualità, Giuseppe Prezzolini precisa gli intenti programmatici de La Voce. Lo fa con l’editoriale intitolato La nostra promessa che appare nel secondo numero della rivista, il 27 dicembre 1908 (…).
Prezzolini e i suoi amici, a cominciare da Papini e Soffici, approdano alla fondazione de La Voce dopo l’esperienza de Il Leonardo e quella del Regno, rivista del nazionalista di Enrico Corradini (…) che avevano già anticipato l’insoddisfazione e le inquietudini del ceto medio e degli intellettuali. La Voce è più avanti, nelle intenzioni del suo fondatore e del gruppo che vi collabora, deve affermare la rinascita attraverso la cultura. In Prezzolini è chiaro un principio: solo attraverso un salto di qualità della cultura nazionale, solo attraverso la sua sprovincializzazione si può preparare il terreno a nuovi esperimenti politici e a un cambio di classe dirigente. Il rinnovamento della cultura si traduce in rinnovamento della coscienza morale, ma prima di conseguire questo ambizioso obiettivo occorre demolire il vecchio “accademismo” (…). L’ambizione è quella di sprovincializzare la cultura italiana e con essa lo Stato italiano che sembra aver tradito gli ideali del Risorgimento (…).
Tra il 1898 e il 1899 erano stati tradotti in italiano da Edmond Weisel due opere fondamentali del pensiero di Nietzsche: Così parlò Zarathustra e Al di là del bene e del male. I giovani fiorentini della cerchia di Prezzolini e Papini aspirano a essere i mediatori fra questa Italia provinciale e la cultura europea. Dalla Francia, grazie a Carlo Placci, giungono le idee di Edouard Drumont, di Maurice Barrès, più tardi di Charles Maurras. La sprovincializzazione appare come la missione del “partito intellettuale” che si aggrega attorno alla nuova rivista, dove il termine partito non significa solo una forma organizzativa degli intellettuali, ma qualcosa in più, un progetto, un’istanza, così come l’aveva vagheggiato Salvemini (…).
Quando viene dato alle stampe il primo numero de La Voce Giuseppe Prezzolini ha 26 anni. La sua precocità è nei libri che ha già pubblicato: Vita intima, Il sarto spirituale, Il linguaggio come causa d’errore, L’arte di persuadere, La coltura italiana, più altre pubblicazioni minori (…). La Voce, dunque, nasce in uno dei momenti più fecondi della sua attività culturale, forse anche della sua vita. Prezzolini è il leader di quei giovani toscani che hanno caratteristiche simili e sono uniti da un ideale comune, sia pur ancora confuso. La Voce è moderna nella fattura, nei concetti, nella capacità di ragionare sulle grandi questioni del suo tempo, registra il ritardo dell’Italia rispetto alle trasformazioni sociali della Nazione. Molti politici pensano ancora che la vocazione del Paese debba essere quella agricola, magari solo più organizzata. L’ostinazione a non comprendere il nuovo spirito dei tempi è la causa della decadenza della vecchia élite aristocratica (…) risorgimentale e post-unitaria. Sta nascendo la dinamica politica delle masse che troverà la sua consacrazione nelle prime elezioni a suffragio universale nel 1913.
La transizione è anche crisi: fine del passato, incertezza per il nuovo che stenta a manifestarsi. Il Risorgimento aveva lasciato l’eco di grandi eroismi ma anche ambizioni frustrate, in sostanza una grande rivoluzione ideale che era annegata nella banalità dell’amministrazione. Giolitti aveva sempre rifiutato l’identità fra politica e cultura risolvendo la sua azione di governo nella mera amministrazione (…). Per questo non aveva mai promosso, neanche per calcolo politico, l’aggregazione attorno a sé di un polo intellettuale (…): non aveva risolto il dilemma cavouriano della nazione (…).
Curzio Malaparte definirà La Voce come la “serra calda del fascismo e dell’antifascismo”. Molti anni dopo Prezzolini traccerà una schematizzazione degli esiti politici dei principali collaboratori della rivista. Fra i fascisti iscriverà: Agnoletti, Cardarelli, Codignola, De Robertis, Gentile, Murri, Mussolini, Papini, Soffici. Tra gli antifascisti: Ambrosini, Amendola, Croce, Einaudi, Emery, Jahier, Longhi, Omodeo, Monti. Infine, segnalerà “i difficili da classificare, gli indifferenti, o prefascisti”, dove Prezzolini ascrive se stesso, insieme ad Angelici, Bacchelli, Bastianelli, Boine, Cecchi, Linati, Lombardo-Radice, Pizzetti, Slataper, Vaina, Vedrai.
Prezzolini e più in generale La Voce non resteranno senza figli. Indro Montanelli ne rivendicherà a lungo l’eredità, iscrivendosi d’ufficio alla categoria del “contestatore dei contestatori”, ma prima di lui Longanesi, Missiroli e per certi versi Malaparte sono eredi del più autentico spirito prezzoliniano, del suo realismo irriverente (…). In un celebre articolo, destinato a finire in tre libri di successo, Montanelli rievocò il loro primo incontro nel 1950, a casa dello scrittore “appollaiato” sulla 119sima strada West Side, in quella singolare abitazione che si era scelto a New York, in cima a un grattacielo. “Montanelli è una simpatica persona”, commenterà il fondatore de La Voce, “… l’articolo che scrisse mi fece piacere soprattutto perché pieno di simpatia, e si sentiva ispirato, uno dei suoi migliori credo. Gli perdonai quindi le invenzioni (quella della bistecca!) e la mancanza di critica”. Longanesi e Montanelli ammirano soprattutto un tratto di Prezzolini: il rapporto con la storia che diventa un metodo interpretativo della realtà. Il trascorrere del tempo ha mostrato l’acutezza, l’originalità e la capacità predittiva di alcune sue analisi, in particolare quando si parla del carattere italiano. La denuncia di quella marcata tendenza all’uniformità conformista, alle zone grigie e indistinte, al politically correct, alla fiacca comodità della vita quotidiana in luogo della difesa dei propri ideali, alla ricerca del compromesso quando non del voltafaccia.
Prezzolini e Montanelli sono uniti dal conservatorismo (…) che in loro è anche un dato caratteriale: Thomas Mann nelle Considerazioni di un impolitico aveva osservato che “ironia e conservatorismo sono due stati d’animo strettamente affini. Si potrebbe dire che l’ironia è lo spirito del conservatorismo”. Prezzolini e Montanelli ne fecero l’arma più efficace per denunciare, porre in risalto un mondo di banalità e conformismi, sconfinando a volte nell’amarezza e nella rassegnazione.