Come in un cupo dipinto medievale o nelle tavole di un allievo di Caravaggio o nella Ronda dei carcerati di Van Gogh, ecco la figura di Ilaria Salis in ceppi: è ammanettata mani e piedi e le catene che la legano sono agganciate a un cinturone impugnato da una guardia carceraria come un degradante guinzaglio. Sorride a testa alta, ma appare esausta.
E se questa ostensione del corpo di Salis, dei suoi polsi e della sue caviglie, non fosse l’involontaria documentazione di un dispotismo di regime, bensì un vero e proprio messaggio inviato all’Europa e all’Italia? In altre parole l’autocrazia ungherese sembra voler comunicare: questo è il nostro sistema penale, lo stato delle nostre carceri, il trattamento riservato agli accusati. È questa l’amministrazione della giustizia e il codice di procedura penale cui non vogliamo in alcun modo rinunciare e di cui dovete farvi una ragione.
È difficile spiegarsi altrimenti la persecuzione alla quale, da undici mesi, è sottoposta la nostra connazionale.
Ogni tappa del suo calvario giudiziario e carcerario sembra destinata ad affermare violentemente il conflitto tra l’idea della giustizia coltivata da uno stato di diritto, e auspicata dall’Europa, e quella messa in pratica da una autocrazia sempre più illiberale.
Insomma è in corso uno scontro asperrimo e, per così dire, all’ultimo sangue tra opposte concezioni del diritto. Non sembra rendersene conto il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, che ha solennemente dichiarato: «La magistratura ungherese è indipendente». Qualcuno gli corra dietro e gli ricordi che il Parlamento europeo, la Commissione europea, la Corte europea dei Diritti umani, la pensano esattamente al contrario.
Così si è arrivati a questo ultimo atto, indecente e oltraggioso, messo in scena nell’aula del tribunale di Budapest. È come se ci venisse detto: questa donna, e proprio perché fieramente antifascista, è una nemica e il nostro sistema penale e penitenziario la tratta di conseguenza, ricorrendo a quel “diritto del nemico” che tiene in spregio le garanzie dell’imputato e i diritti della persona detenuta. È, appunto, una limpida questione di democrazia.
D’altra parte, cosa sono gli standard di civiltà giuridica indicati dalle convenzioni e dai trattati? Una formula che può apparire quanto mai rarefatta tanto essa risulta riservata a una dimensione di pura astrazione e di formalismo delle norme. Ma, se si pronunciano quelle parole mentre si guarda il video di Ilaria Salis in catene, si potrà avere un’idea del carico di sofferenze che la civiltà giuridica e i suoi strumenti (diritti, garanzie, tutele) può aspirare a contenere e a lenire.
Intervistata da questo giornale, chi ha condiviso per qualche tempo la prigionia di Salis così racconta: «Eravamo nella stessa cella in 6-7, un bagno di un metro quadrato, un tavolo, nessun fornello, fon e bollitore, i letti infestati di cimici: io e Ilaria non abbiamo dormito per una settimana». Si dirà, e non a torto, che le condizioni di molte celle del sistema penitenziario italiano non sono migliori, ma questo — lungi dal costituire una giustificazione — dovrebbe rappresentare una ragione di più per esercitare il controllo sulle condizioni di reclusione, in Italia come in Ungheria, e per contestare questa violazione sistematica dei diritti umani.
Il carcere di Budapest è parte integrante dell’Ue e del suo spazio giuridico: dunque la sorte di Ilaria Salis interpella la coscienza europea e i suoi valorifondativi.
Ma perché si è sopportato questo scempio di legalità per quasi un anno? C’è una ragione generale, dipendente dall’indifferenza che circonda quanto — e quanto di orrore — accade in tutte le carceri. E, poi, c’è una ragione particolare, dovuta alla forte amicizia politica che lega il governo italiano al regime ungherese e al suo leader. Se ne è scritto anche troppo in queste ore e il rischio è che sia una spiegazione sin troppo semplice.
Proviamo, dunque, a rovesciare questo approccio e chiedere che il rapporto privilegiato tra la premier italiana e Viktor Orbán sia la risorsa alla quale attingere per compiere un atto di giustizia, consentendo a Ilaria Salis il trasferimento in Italia, dove attendere, agli arresti domiciliari, la sentenza del tribunale ungherese.
Questa sì, sarebbe una prova di autorevolezza e di credibilità per il nostro governo. Così finora non è stato. Solo due giorni fa, il ministro Tajani ha denunciato con un tweet le condizioni di detenzione di Salis (un tweet? Ma che razza di politica è mai questa?) e ha convocato l’ambasciatore ungherese, ma risulta evidente che si sono buttati via mesi e mesi di totale inerzia.
Il padre di Ilaria, Roberto Salis, ha dichiarato: «Finalmente l’ambasciatore italiano a Budapest ha trovato il tempo per incontrarmi, tra un party e l’altro», benché sapesse che «nostra figlia era stata incatenata già quattro volte».
Insomma, per la diplomazia italiana, un’autentica bancarotta. Tenuto conto che gli italiani detenuti in un Paese straniero sono circa 2.200 ci si può solo augurare che la loro sorte sia tutelata meglio di quanto è finora accaduto alla 39enne maestra elementare cresciuta in Brianza.