Che la tensione sia alta lo dimostrano le dichiarazioni di Assosuini: “Dopo ben mille giorni di allarmi inascoltati, adesso non si può chiedere agli allevatori di trasformare gli allevamenti in sale operatorie e tenere i costi della carne ai minimi”. Sono loro i primi a pagare un prezzo altissimo per la diffusione della malattia che, però, sta costando milioni alle finanze pubbliche. Un danno, quindi, per tutti i cittadini.
I nuovi casi sono l’ennesima prova di una situazione sfuggita al controllo: 26 gli allevamenti contaminati in Lombardia, tra Pavia, Milano e Lodi (la cui provincia conta 183 allevamenti con 340 mila capi totali). “Con i recenti focolai lodigiani – commenta il responsabile scientifico di Legambiente Lombardia, Damiano Di Simone – il virus è ormai a un passo dal divampare nel cuore della grande porcilaia lombarda, con i suoi 4,5 milioni di capi allevati tra le province di Cremona, Brescia e Mantova”. Il tutto a poche settimane dalla relazione del gruppo di esperti della Commissione Ue, l’Eu Veterinary Emergency team, che dopo aver ricordato una serie di inerzie (anche finanziarie) e ritardi (per esempio, nella costruzione delle recinzioni), ha bocciato la strategia adottata dall’ex Commissario Vincenzo Caputo, che aveva promesso di estirpare la peste suina in tre anni, dal ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida e dal governo Meloni, molto più concentrato sulla battaglia contro la carne coltivata. Per gli esperti Ue sarebbe stato maggiormente efficace, contro la peste suina, un approccio meno basato sulla caccia e più su monitoraggio e contenimento geografico dei cinghiali. “I casi negli allevamenti si moltiplicano mentre nei boschi della Lombardia da tempo non si trovano, se non sporadicamente, carcasse di cinghiali positivi”, sottolinea Legambiente, secondo cui “le popolazioni di cinghiali devono essere ridotte, con un approccio di corretta gestione faunistica”, ma “il problema non è nei boschi, bensì nei capannoni e nei recinti degli allevamenti”.
Dopo gli otto nuovi focolai individuati tra fine luglio e inizio agosto, sei fra Trecase (Novara), Besate e Vernate (Milano), Mortara e Gambolò (Pavia), Ponte dell’Olio (Piacenza), ora l’allarme è scattato in tre allevamenti della provincia di Lodi, a Vigarolo di Borghetto, Marudo e Sant’Angelo Lodigiano, una trentina di chilometri a sudest di Milano, vicino alla provincia di Pavia già pesantemente colpita dai cinghiali infetti che pullulano lungo l’Appennino. In totale, queste strutture ospitano 5.500 capi. Sono saliti così a 159 i Comuni italiani (in 8 regioni) con almeno una positività accertata. In Piemonte, dopo i tre allevamenti in provincia di Novara, uno a Vinzaglio e due a Trecate, è stato registrato un altro caso a Lignana (Vercelli).
I vertici di Coldiretti chiedono “che vengano subito erogati gli indennizzi dovuti alle aziende danneggiate dalla Psa” e certezze sul fatto che i rimborsi riguardino anche chi è costretto a restare fermo senza ripopolare. Intanto arrivano le nuove regole del commissario. Sono inaspriti i divieti di movimentazione di animali e accesso agli allevamenti nelle tre zone di restrizione di Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna. In caso di carenza strutturale o gestionale dei requisiti di biosicurezza, i veterinari disporranno lo svuotamento degli allevamenti, come pure l’abbattimento preventivo di tutti i capi di un allevamento se “sia stato individuato qualsiasi contatto diretto o indiretto con un focolaio confermato”. Ma regna l’incertezza. “Da fine luglio non possiamo caricare suini perché il mio allevamento è in zona 3 – dice Riccardo Asti, suinicoltore di Pieve Fissiraga (Lodi) e consigliere Coldiretti di Milano, Lodi e Monza – ma già da maggio, quando siamo entrati in zona 1, siamo costretti a vendere i suini al 30-35% meno del valore di mercato”.