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L’origine della parola è illuminante: precariato discende dal latino prex, ovvero la preghiera. Sarebbe a dire che il precario è, né più né meno, colui che si trova costretto a pregare, a supplicare, a chiedere in ginocchio qualcosa che gli venga concesso come una grazia. Lavorare, per esempio. Ho sempre avuto l’impressione che in questa immagine della preghiera sia concentrato il senso psicologico di chi vive appeso, fragile, del tutto esposto all’arbitrio di un’entità superiore a cui rivolgersi senza la minima garanzia di parità, ma sempre con deferenza. Appunto: pregando. E se ottieni qualcosa, ringraziando. Fine della storia, qui il cerchio si chiude, sigillandosi nel binomio supplica- gratitudine da cui è necessariamente estromesso ogni barlume di diritto, subito trasfigurato in pretesa (ricordate il famoso adagio sul cavallo donato a cui non si guarda in bocca?…). La prima storia che voglio raccontarvi è quella di Giacomo (che va da sé non si chiama Giacomo, ma occorre mutarne il nome perché nel precariato vale la stessa logica mafiosa che punisce la delazione). Tant’è. Giacomo ha 35 anni, mi scrive un messaggio sui social dopo avermi visto per caso in tv, sul palco del Concertone del Primo Maggio, e come tanti mi racconta la sua storia in Calabria, iniziata vent’anni prima dopo l’abbandono degli studi per far fronte a una situazione familiare complessa: la madre è disabile, da anni bloccata nel letto, e l’assistenza del primogenito non le basta, per cui anche il minore, Giacomo, ha bisogno di un lavoro vicino a casa, senza pretese, un qualsiasi mestiere che gli permetta di contribuire alle spese domestiche senza lasciare il paese.
Il nostro inizia a guardarsi intorno, secondo una perifrasi ricorrente, ma forse sarebbe meglio dire che inizia a pregare. A esaudirlo dall’alto dei cieli è un benzinaio, che per l’appunto cerca per il suo magazzino/rimessa una terza figura così, un terzo ragazzo da pagare al nero, una terza risorsa instancabile, braccia gambe nel pieno delle forze, soprattutto un terzo supplice devoto ricattabile nel segno di una riconoscenza che — mi scrive Giacomo — porta addirittura i tre giovani dipendenti a chiamarlo zio. Ognuno di loro, a ben guardare, aveva un motivo familiare, umano, personale, per pregare lo zio di una benedizione in forma di impiego, a fronte della quale — mi scrive Giacomo — «gli anni passano ma tutto resta uguale, compreso che da vent’anni lavoriamo quanto e come vuole lui, senza orario, senza turno, senza domenica, senza assicurazione, e in più quando ogni giorno ci offre a mezzogiorno lattina e panino dall’alimentari all’angolo, noi gli diciamo sempre grazie come se fosse l’uomo più buono del mondo, e così anche quando, d’estate, ci dice lui che ci dobbiamo fare qualche giorno di mare, e ci dice quando».
Il racconto di Giacomo mi colpisce per come illumina il precariato di un riflesso subdolo e sottilmente sadico, analogo a quello che pervade l’anticamera del femminicidio, perché colui che intesse la rete della dipendenza si percepisce e si spaccia, spesso, come un idolo benefico, come una divinità protettrice e munifica la cui ombra è un patrocinio vitale e salvifico.
Si tratta di un comune denominatore per moltissimi casi della giungla precaria, con le infinite sfumature e declinazioni di un Far West complesso che ama perlopiù giocare sul prodromo del rapporto di lavoro, ovvero sulla condizione di partenza del soggetto “in cerca” (leggi “in preghiera”) di assunzione: sei giovane e alle prime armi? Sei donna e in età fertile? Sei over 40 rimasto senza impiego? Hai famiglia a carico? Ti servono referenze?… Il catalogo sarebbe articolato e composito, ma analogo è il concetto per cui la vecchia “proposta di lavoro” si ribalta in una “proposta del lavoratore” in cui è quest’ultimo a bramare l’ingaggio.
Nel luglio del 2021 volli unirmi agli operai di una fabbrica poco lontana da dove sono cresciuto, la famosa Gkn i cui oltre 400 dipendenti ricevettero notizia di licenziamento via email e whatsapp. Fece scandalo. E dire che quelli erano, in teoria, la parte protetta dei lavoratori, quelli con un contratto regolare, perché fuori dai cancelli della fabbrica, nei lunghi giorni del presidio e dei cortei, ebbi modo di conoscere anche l’altra faccia invisibile, di cui mi resi conto quando un metalmeccanico mi prese da parte correggendomi «noi però non siamo solo 400 dipendenti, perché poi ci sono tutti quelli delle ditte in appalto…». Ed era vero: nella fabbrica del terzo millennio, nipote di quella di Paolo Volponi, non esistono solo gli operai, ma anche i figli di un Dio minore della galassia precaria, quelli per cui il licenziamento via email e whatsapp non fa neppure notizia, quelli per cui la provvisorietà è un mantra, quelli che voglio definire con le parole di Samantha, 50 anni: «Sono anni che io il futuro lo vedo fino alla data scritta sul contratto, dopo quella data ogni volta c’è il buio».
Già, sì, il buio. Due anni fa in Giappone è stato condotto uno studio sui legami fra suicidio e condizioni lavorative, con l’esito stupefacente di un trend in costante crescita fra i precari. Si muore, certo, si muore eccome per lo stress di un contratto che — per gioco di parole — contrae il futuro in un domani limitato e circoscritto, e ricordiamoci che esiste anche una claustrofobia del tempo oltre a quella arcinota degli spazi. Samantha beve un sorso della sua birra gelata, e poi mi dice: «Ti sei chiesto perché i lavori precari non sono mai considerati usuranti? Eppure conosco persone che si sono ammalate di ulcera, di ipertensione, di gastrite, senza considerare gli attacchi di panico e l’emicrania che fra noi sono quasi scontati, se pensi che ogni volta devi tornare da capo, sentirti sul mercato, come fossi all’inizio…».
Esatto, Samantha, hai ragione, è come tornare ogni volta ai nastri di partenza. E se quell’intermittenza può ben conciliarsi con l’adrenalina del ventenne, con la sua naturale insofferenza per le regole, con la sua smania di tenersi libere le mani riformulando la proiezione di se stesso nel poi, è con il tempo che l’ebbrezza svanisce nell’oggettività, e si scopre incompatibile con la vita, con la famiglia, con tutto ciò che sta intorno al Moloch del lavoro.
Insomma, un rider padovano di 22 anni ha fatto notizia su TikTok per aver dato pubblico sfogo al suo rimpianto per i giorni bradi prima che Just Eat lo regolarizzasse. Ha detto chiaramente che quell’agognato contratto — che lo tutela e lo protegge — lo vincolerebbe troppo all’esclusiva, oltre a garantirgli dei diritti (il Tfr, le ferie…) di cui uno studente non sente necessità. Le parole di questo Mercurio alato del terzo millennio sono il paradigma di quanto vari siano i riflessi del prisma: il precariato nasce spesso come emblema di libertà estrema, di furbizia, di scaltrezza e di guadagno “senza ritenute”, salvo poi tramutarsi in breve tempo in una morsa che stritola il lavoratore, quando non lo uccide dedicandogli l’epitaffio di un titolo in cronaca.
Mette i brividi leggere le parole di Michele, il grafico trentenne di Udine che 5 anni fa si tolse la vita lasciando quell’agghiacciante lettera-testamento in cui Michele bombardando ogni riga di «sono stufo », ripercorre la sua odissea di colloqui, di compromessi, di scelte al ribasso, di compiacenze e di mortificazioni, fino a quel terribile «non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere». La sensazione è che la lettera di Michele si collochi nel gradino esistenziale immediatamente successivo a quello del rider padovano, come se la disillusione attendesse subito dopo l’angolo della sfrenata baldoria del “work no-limit”, analogamente a un abito che d’un tratto non si addice più al corpo che sei diventato, in cui sei cresciuto. Il ventenne brinda al suo primo lavoretto stagionale, ma il cinquantenne non ne trae neppure i soldi per lo spumante, altro che brindisi.
Ma non sorprende, in fondo: sono anni che viviamo nell’illusione di poter cristallizzare un’eterna giovinezza, annullando il diagramma delle nostre differenti età in un susseguirsi di picchi da pseudo- ventenne for ever. E così come l’amore tende a coincidere sempre con l’infatuazione di Romeo e Giulietta, allo stesso identico modo si è creduto di poter spalmare su un’intera carriera lavorativa il modello di chi ha tutta una vita davanti, per citare il film di Virzì sui lavoratori nei call-center. E su tutta questa follia aleggia sempre il ricordo di Abderrazak Zorgui, il reporter tunisino che nel dicembre 2018 si è immolato dandosi fuoco per far conoscere il dramma dei precari, da lui chiamati “gente senza diritto”, laddove il primo diritto è quello al futuro.
In fondo sta tutto qui, e torniamo alla preghiera che sta inscritta nella stessa parola precariato: l’essere umano viene al mondo per vivere, non per supplicare di poterlo fare.