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La pausa estiva e le scadenze ravvicinate rendono difficile comprendere quali siano le poste in gioco davvero rilevanti di questa campagna elettorale. Il governo non è caduto su un qualche provvedimento di ampio respiro, ma per tensioni politiche create dai Cinque Stelle prima e da Lega e Forza Italia appena dopo. Si è così interrotto un percorso che stava portando buoni frutti sul piano interno e internazionale. Se fosse candidato, molti elettori non esiterebbero a votare Draghi. Invece il 25 settembre prossimo saremo costretti a «cambiare», senza capire cosa e con chi. Certo, le elezioni sono il sale della democrazia, i governi possono cadere in tutti i Paesi. Ma noi ci ritroviamo in una situazione anomala: la continuità non rientra fra le opzioni di scelta. Nelle recenti elezioni francesi si sono confrontate due proposte forti di cambiamento (quelle di Mélenchon e di Le Pen), ma i francesi hanno potuto votare per la continuità di Macron. Noi ci troveremo a scegliere fra due campi (tre, se i Cinque Stelle restano da soli), internamente eterogenei, che il sistema elettorale costringe a contrapporsi l’uno rispetto all’altro, prendendo le distanze dall’esperienza di unità nazionale appena conclusa.
Ai cittadini che hanno assistito con maggiore stupore e dispiacere alla fine del governo Draghi converrà valutare la campagna dei partiti in base ad alcuni criteri fondamentali.
Il primo e più ovvio è il sostegno esplicito agli obiettivi del Pnrr. Ci siamo impegnati a realizzare decine di riforme entro il 2026 in settori chiave dell’intervento pubblico: fisco, servizi sociali, formazione, lavoro sommerso ed evasione, processi civili e penali, semplificazione regolativa e altre ancora. È improbabile che qualche leader politico rinneghi esplicitamente gli impegni del Pnrr. Bisognerà però prestare molta attenzione alle sfumature, alle allusioni, ai cenni circa eventuali «negoziati» con Bruxelles: insomma a tutti i segnali di ambiguità.
Il Pnrr non satura l’agenda di governo, c’è spazio per proposte integrative e aggiuntive. Qui i partiti tenderanno a vendersi usando le tradizionali etichette di destra e sinistra, rispolverando gli slogan novecenteschi su Stato e mercato, libertà e uguaglianza. Non lasciamoci ingannare. Le sfide di oggi sono trasversali, ciò che conta è conciliare efficienza ed equità sia nell’intervento pubblico sia nel mercato. Un compito che mette in discussione molti idoli di entrambi gli schieramenti. Nel centrosinistra vi è una distanza notevole fra le varie posizioni, che vanno dal solidarismo ecologista e il neo-statalismo della sinistra radicale, da un lato, al riformismo efficientista di Calenda dall’altro lato. Nel centrodestra vi è invece molta ambiguità sui temi della finanza pubblica e della concorrenza. Salvini chiede meno tasse e insieme un cospicuo scostamento di bilancio. Berlusconi ha subito proposto di aumentare le pensioni. Entrambi si sono spesi in difesa di varie protezioni categoriali. Chiedere spesa in deficit e esenzioni dalla concorrenza (balneari, tassisti) non sembra certo coerente con una seria filosofia di mercato.
I Cinque Stelle meritano un discorso a parte. Sono nati con lo slogan «oltre la destra e la sinistra» e hanno catturato una diffusa domanda di rinnovamento democratico (popolo contro «casta»). Quel ciclo è oggi finito: alla guida di due governi, il Movimento ha dovuto frettolosamente abbandonare il principio uno-vale-uno e riscoprire il valore della competenza nelle scelte di politica pubblica . In queste elezioni si presentano come «progressisti»: in che cosa la loro agenda (e visione) sociale si differenzi da quella degli altri partiti di centrosinistra non è però affatto chiaro.
Il versante su cui può realmente avvenire un cambiamento significativo riguarda l’integrazione europea. Quasi nessuno propone oggi l’uscita dall’euro o dalla Ue. Il centrodestra propugna tuttavia un’idea di Europa che rischia di modificare la tradizione europeista del nostro Paese, oggi incarnata soprattutto dal Pd e Azione/+Europa. Lega e Fratelli d’Italia sono schierati a favore di un’Europa dei popoli, in cui «la Ue dovrebbe smettere di interferire negli affari interni dei suoi Stati membri» (Lega) e diventare una «comunità di nazioni che cooperano all’interno di alcune istituzioni confederali in settori in cui hanno interessi comuni»(Fratelli d’Italia). Non sono precisati né il percorso per realizzare questi obiettivi né il contenuto specifico di quelle identità dei popoli che si ritengono oggi minacciate dall’integrazione. Si tratta di limitare l’accesso dei migranti? Di porre limiti al multiculturalismo e ai diritti «arcobaleno», nel nome della tradizione? Oppure vi è una opposizione di principio alla non discriminazione e alla tutela delle minoranze, cardini dello stato di diritto? La cartina di tornasole è qui il rapporto con Orbán: la valutazione delle sue riforme istituzionali e dei suoi discorsi sempre più apertamente razzisti. Su questi temi, dove sta esattamente il centrodestra e soprattutto Forza Italia, nata come partito europeista e liberale? È molto importante saperlo. Ad essere in gioco non è solo il rapporto con Bruxelles e con il diritto Ue, ma il modello di società e di istituzioni che abbiamo in mente per il nostro Paese. Quello entro cui proseguire il percorso di ripresa e resilienza, irresponsabilmente interrotto dieci giorni fa.