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Dopo la breve stagione universale della globalizzazione, il confine riemergecome nuovo simbolo dell’epoca in un mondo che si restringe impaurito. Confine contestato e riconsacrato, attaccato e difeso in una guerra che mette in gioco la geografia interna dell’Europa così come l’abbiamo ereditata dal tracciato di pace del febbraio 1945 a Jalta. Quell’accordo di spartizione dell’Europa è saltato con l’invasione russa dell’Ucraina, perché si basava su una ridefinizione della mappa storica e politica accettata e condivisa da tutte le parti in causa: strappando l’angolo ucraino, l’intera mappa viene messa in discussione e perde la sua funzione di garanzia dell’insieme, lasciando l’Europa senza fondamenta riconosciute e benedette dalla politica. Nulla è certo, tutto può tornare in revoca. Fingiamo che non sia così, ma in realtà con la guerra noi europei siamo entrati in un equilibrio mobile e provvisorio, quasi fossimo isole nella corrente, con la geografia che si autonomizza dalla storia, costretta a inseguire in faticoso ritardo.
Come se temesse questo momento, nei lunghi decenni del dopoguerra in realtà l’Europa si era costantemente preoccupata di dare garanzie a se stessa, nella convinzione che la pace non è una rivelazione di fede che cala sugli uomini di buona volontà ipotecando il loro futuro, ma una faticosa e costante costruzione umana, dunque fatalmente minacciata dalla sua fragilità ed esposta ai venti imprevedibili della politica, che in ogni momento possono cambiare velocità e direzione. La pace, in una parola, ha bisogno di manutenzione continua, non è una risorsa naturale, piuttosto una conquista culturale che ne fail presupposto necessario di una civiltà, la condizione indispensabile per assicurare il suo sviluppo. Questa parte del mondo, in particolare, ha vissuto direttamente la sfida dei due totalitarismi, il fascismo-nazismo e il comunismo fatto Stato e realizzato in un impero, con lo sbocco del primo nella seconda guerra mondiale e del secondo nell’infinita guerra fredda con l’impero concorrente, gli Stati Uniti. La doppia esperienza travagliata del Novecento ha consigliato all’Europa di non limitarsi a predicare e custodire la pace, ma piuttosto di ancorarla alle regole, alle istituzioni e al metodo della democrazia, unico vero antidoto di garanzia alle tentazioni autoritarie, dispotiche e totalitarie che incubano quasi inevitabilmente pulsioni di guerra e di conquista.
All’ombra delle grandi organizzazioni internazionali di salvaguardia costruite per dotare la pace di strumenti giuridici, diplomatici e politici impegnativi per gli Stati e i governi nazionali, l’Europa ha fatto la sua parte. Prima di tutto con la realizzazione — a tappe nei tempi, ma grandiosa nelle ambizioni — di uno spazio comune di cooperazione e di mercato che si è via via trasformato in una vera e propria Unione, anche se imperfetta perché incompiuta. E intanto nello sforzo continuo di dare una norma alla pace, trasformarla in un impegno per quelle nazioni che proprio qui, in Europa, avevano convocato gli eserciti di ogni Paese in due guerre mondiali nel secolo. Si trattava di garantire la convivenza civile nel continente inquieto, dunque pericoloso, trasformando quei confini stabiliti per eredità della geografia, per lascito della storia, per convenzione dei governi in una visioneeuropea d’insieme, di cui tutti i Paesi sentissero la responsabilità e quindi la necessità di una tutela, nella garanzia di quello che potremmo chiamare l’ordine europeo.
Con due anni di lavoro — dal 1973 al 1975 — di 35 Stati, ciò che va sotto il nome burocratico di Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CSCE) è stato esattamente questo: un impegno solenne, firmato a Helsinki da tutti i Paesi europei — Urss naturalmente compresa, Albania autoesclusa fino al 1990 — più gli Stati Uniti e il Canada, a unire i loro sforzi allo scopo di superare la diffidenza e sviluppare la fiducia reciproca, riconoscendo il legame indispensabile tra pace, sicurezza e diritti fondamentali. Vincitori e vinti dell’ultima guerra, Paesi capitalisti e comunisti, Stati divisi da un Muro come le due Germanie, Est e Ovest l’un contro l’altro armati si obbligavano reciprocamente al rispetto della sovranità altrui, dell’integrità territoriale, dell’inviolabilità delle frontiere, del non intervento negli affari interni, dell’autodeterminazione dei popoli, del rispetto dei diritti umani e del divieto di ricorrere alle minacce e all’uso della forza.
Un vero e proprio meccanismo di garanzia internazionale, un atto di fiducia nella sopravvivenza di ragioni e interessi comuni sotto la distanza di sistemi politici e ideologici contrapposti, quasi una scommessa sul significato autentico del concetto di Europa, nelle sue due parti occidentale e orientale. Tutto questo solo trent’anni dopo la fine di un conflitto mondiale, nella convinzione che esistessero comunque valori comuni cui appoggiarsi per costruire un sistema di prevenzione dei conflitti, mentre si completava laricostruzione delle strutture sociali democratiche. Nel ’90 la “Carta di Parigi”, in uno slancio di ottimismo, certifica che “l’Europa si sta liberando dal retaggio del passato mentre il coraggio di uomini e donne e la potenza della volontà dei popoli dischiudono una nuova era di democrazia, pace e unità” sul continente. Nel ’94 a Budapest e nel ’96 a Lisbona la Conferenza si trasforma in Organizzazione (OSCE), e da “strumento di preallarme e prevenzione delle crisi” diventa la sede di elaborazione “di un modello comune per uno spazio di sicurezza dell’Europa nel ventunesimo secolo”.
In questo impianto è certo visibile a occhio nudo il velleitarismo della diplomazia e anche l’ipocrisia della politica, che fingeva di considerare la democrazia una conquista comune a Ovest e a Est, mentre l’Urss riconosceva l’autodeterminazione dei popoli sulla carta di Helsinki e la negava nella vita quotidiana dei Paesi satelliti. Ma è altrettanto riconoscibile lo slancio per dare basi solide alla pace, quasi organizzandola per renderla permanente, ricercando intanto le radici di un sentimento storico, politico e culturale comune, che per forza di cose si chiama Europa.
Tutto questo oggi non c’è più, cancellato dall’invasione armata. Ma non possiamo farne a meno, così come Russia e Europa — avverte il premio Nobel Svetlana Aleksievic — non possono fare a meno l’una dell’altra.
Da qui, dopo aver esercitato non il diritto, ma l’obbligo morale di distinguere tra gli aggressori e le vittime, bisognerà ricominciare, in quella fatica della democrazia che è la sua quotidiana, grandiosa condanna.