I pantaloni con cui Marlene Dietrich arrivò a Parigi nel 1930 fecero gridare allo scandalo più delle sue esibizioni a gambe aperte, velate dalle calze a mezza coscia ne L’angelo Azzurro (Joseph von Sternberg, 1930): non solo parlavano di una sessualità dominatrice, ma di una donna che attingeva agli stereotipi del potere maschile e diventava una vampira di energie invece che una donatrice devota. Il seno turgido che sbocciava dall’abito di Marilyn Monroe mentre cantava al suo amante «Happy Birthday Mr. President», il 19 maggio 1962, alludeva a una seduzione di nuovo conio, ribelle alle convenzioni del matrimonio, della ragion di Stato e della donna per bene, incarnata in quell’occasione dalla moglie Jacqueline. La frangia lunga dei Beatles ci ha detto, nei primi anni 60, che i ragazzi non erano più disposti ad accettare le costrizioni degli uomini-brillantina, nemmeno sotto la forma mutante incarnata da Elvis Presley. I costumi sgargianti, sartoriali e selvaggi, con cui pestava la scena Jimi Hendrix, accettavano la convenzione per la quale un nero potesse ancora affrancarsi quasi solo facendo il giullare, ma affermarono anche come un musicista con i capelli afro fosse in grado di tramutarsi in un idolo. La fisicità da mimo danzatore, alieno, eunuco di David Bowie va letta in relazione al progressivo affermarsi di un modo d’essere, oltre che di apparire, sempre meno legato al sesso, al luogo, al contesto nel quale si è nati, aprendo il varco a una fluidità esistenziale che è al contempo liberatoria e ansiogena: se vivere è mutare, quale versione di sé va coltivata?
L’artista brasiliana Lygia Clark si è trasformata in una superficie sacrale, un tavolo e un pasto vivo su cui un gruppo di amici sputava e depositava un filo da cucito passato in bocca e bagnato della propria saliva. Il suo corpo diventava così un bozzolo ricoperto da una superficie vitale, creata collettivamente e capace di evocare la sintonia uomo-mondo. L’artista tedesco Joseph Beuys aveva costruito per sé stesso un’immagine fissa: un cappello di feltro e un giubbotto da pescatore, pieno di tasche per potere contenere l’essenziale mentre lui si muoveva come un nomade, guidato dal suo bastone eurasiatico di rame, da pastore, da rabdomante, da guida, concepito per individuare e seguire le onde di energia vitale. L’artista cubana Ana Mendieta si copriva di fango per aderire a un albero diventandone parte integrante, si adagiava sulla terra coprendosi di fiori per essere assorbita dalle dinamiche del mondo vegetale, oppure lasciava traccia della sua sagoma (siloueta) su di un frammento di suolo che poi bruciava, disegnando se stessa su un fuoco che segnava la continuità uomo-terra.
A questo punto è essenziale notare come l’arte contemporanea non nasce per caso. Il suo legame con le tematiche emergenti nel mondo è la garanzia della sua sensatezza: tra la Marilyn che cantò per Kennedy e il bozzo in cui si fece trasformare Lygia Clark c’è un nodo di interferenze.
I personaggi che giravano per la Factory di Andy Warhol, da Ultra Violet che volentieri faceva fotografare la sua lingua lunghissima, puntuta e sexy, a Joe Dallesandro che si prestava a recitare parti da prostituto, gigolò, accompagnatore seminudo e prestante, a Edie Sedgwick modella anoressica, tossicomane e splendida nelle sue calze velate spesso coperte solo da un maglione, raccontano che le ribellioni alle mentalità più retrive hanno trovato espressione anzitutto nella corporeità visibile. La raffinatezza dei costumi e del trucco con cui Matthew Barney si è trasformato in un fauno, in un semidio, in un criminale, in un atletico scozzese che si arrampica sulle balze del Guggenheim Museum, è figlia di un lungo percorso nell’arte visiva: difficile dimenticare Marcel Duchamp femminilizzato o Claude Cahun rasata e mascolinizzata. Ma anche lo spettacolo da intrattenimento ha saputo dire la sua: per capire le peripezie del corpo non ci si può che addentare anche nel mondo del cosiddetto kitsch. È percorrendo i sentieri del buono e cattivo gusto che abbiamo conquistato una dimestichezza con l’intimità fisica che sarebbe stata impensabile all’inizio del Novecento.
Ricordiamoci anche che la contesa contro le costrizioni del corpo ha radici antiche. Volendo partire dall’Illuminismo, ribelle alla convinzione di Descartes che la materia e il pensiero siano entità separate, troviamo un’insistenza tenace sul loro legame nel sensismo di Condillac, nell’Oriente idealizzato da Voltaire, nell’importanza della fisicità nell’apprendimento in Jean-Jeacques Rousseau, persino (o soprattutto) nell’erotismo estremo ma cerebrale descritto dal marchese de Sade. Nel frattempo una coincidenza tra gli avanzamento della tecnica e quelli della mentalità hanno sopito piaghe come quelle della schiavitù, del servaggio, della fatica fisica, di numerose malattie, di un pudore legato all’abominio per il corpo sessuato e soprattutto femminile. Per altro tutto questo condusse verso un Novecento in cui si scoprì l’aggressività fisica che ci assedia: il carteggio Einstein-Freud sulle ragioni della guerra parla di quanto sia ineliminabile il desiderio di uccidere e, secondo Emmanuel Lévinas, il viso di una persona nuova suscita in noi una reazione omicida. Così artisti di ogni natura hanno giocato con la fisicità usandola senza freni, spingendola al limite, creando performance violente e autolesioniste oppure aperte al sesso e alla nudità. Perché, come asserisce lo Zarathustra di Nietzsche, che «vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza». Liberare il corpo ha significato attingere alle verità che ha da dirci.
Tuttavia, questa liberazione è avvenuta con tale accelerazione che ci impone di riflettere su quanto accadrà domani, soprattutto considerando l’affermarsi dell’intelligenza artificiale nelle sue varie forme. Può darsi che questa torni a imbrigliare la fisicità con protesi materiali, regole, imposizioni e istruzioni d’impiego. Veniamo da una lunga marcia di cui non vorremmo perdere i frutti, eppure, forse, è già tempo di progettare una rivolta del corpo diversa e ulteriore.