La guerra, le sanzioni e lo spettro della stagflazione
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6 Agosto 2022Carlo Cottarelli
Prima dovevano essere 10 miliardi, poi 14, infine sono diventati 17. A tanto ammonta il decreto Aiuti bis, il nuovo (e ultimo) pacchetto di sostegno all’economia del governo Draghi. Non vi riassumo le misure perché sono state già ampiamente riportate dai media ieri. Ma da dove arrivano questi soldi? E l’intervento ha le dimensioni appropriate?
In realtà, la domanda deve essere posta non solo per il decreto Aiuti Bis, ma per il totale degli interventi posti in essere nel 2022: si tratta di 52 miliardi (il 2,7 per cento del Pil), una montagna di soldi, finanziati senza aumentare il deficit pubblico che è rimasto saldamente ancorato al 5,6 per cento del Pil fissato, mirabile dictu, nel lontano settembre 2021 (vedi Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza, la base per la legge di bilancio per quest’anno). A cosa è dovuta questa capacità di sostenere l’economia senza aggravare il deficit pubblico?
Non è ancora disponibile un quadro completo, ma gli elementi principali della risposta sono abbastanza chiari. La maggiore crescita reale non c’entra molto perché, rispetto al settembre scorso, il Pil è cresciuto più o meno quanto previsto nel biennio 2021-22. C’è stato qualche risparmio di spesa perché alcune misure non hanno tirato quanto inizialmente stimato (il caso più recente è quello dell’assegno unico). Il grosso dell’effetto è però dovuto all’inflazione, in eccesso a quanto previsto di 2,5-3 punti percentuali cumulati (per il deflatore del prodotto interno lordo, molto di più per i prezzi al consumo).
Con i vari interventi, lo Stato ha quindi restituito a famiglie e imprese quanto in più era stato incassato per l’aumento dei prezzi e delle entrate tributarie.
A essere pignoli, ma neanche tanto, lo Stato non ha restituito proprio tutto. Ne manca una buona fetta. L’inflazione, infatti, non fa solo aumentare le entrate correnti, ma riduce anche il valore reale dei titoli di Stato in circolazione. Lo Stato prende a prestito 100, e restituisce 100 (più gli interessi fissati all’inizio del prestito), ma quei cento (e relativi interessi), non valgono quanto quello inizialmente atteso in termine di potere d’acquisto, valgono molto meno. È la tassa da inflazione che pagano i risparmiatori che, direttamente o indirettamente (tramite banche e fondi di investimento), hanno comprato titolo di Stato non indicizzati all’inflazione. Per il solo 2022 il valore di questa tassa, non incluso nel deficit ma che influisce sul rapporto tra debito pubblico e Pil, vale circa 35 miliardi (quasi 2 punti percentuali di Pil). Il che significa che, a fine 2022, il rapporto tra debito pubblico e Pil dovrebbe essere ben più basso di quanto sarebbe stato senza la sorpresa dell’inflazione, nonostante il deficit sia invariato.
Il che solleva un’altra domanda: ha fatto bene il governo a mantenere invariato l’obiettivo di deficit? Non avrebbe dovuto utilizzare anche i risparmi della tassa d’inflazione per sostenere l’economia? Tutto sommato, credo che il governo abbia fatto bene. L’economia cresce e, per ora, non ci sono segni di un effetto, da molti temuto catastrofico, della guerra in Ucraina.
Con l’inflazione all’8 per cento, una crescita, nella media dei primi due trimestri del 2022 a un ritmo superiore al 2 per cento annuale, un tasso di disoccupazione a livelli inferiori alla media storica italiana, e un tasso di occupazione su livelli che non si vedevano dal 1977, un intervento più ampio sarebbe stato ingiustificato dal punto di vista ciclico. Dal punto di vista dei nostri conti pubblici, ricordiamoci comunque che il rapporto tra debito e Pil resta a livelli altissimi e che il sostegno della Banca centrale eurpea, decisivo negli ultimi due anni, è ora frenato dalla necessità di contenere l’inflazione nell’area dell’euro. Meglio allora risparmiare le munizioni per un nuovo possibile intervento, nel caso le nubi a cui ha fatto riferimento Draghi nella conferenza stampa portino a un temporale autunnale.
Detto tutto ciò, resta un problema. L’inflazione non è neutrale in termini di distribuzione del reddito. I lavoratori dipendenti, il cui reddito è stato fissato in contratti triennali firmati quando l’inflazione era bassa, e spesso titolari di investimenti in titoli di Stato, stanno soffrendo più di altri, il cui reddito aumenta più rapidamente in linea con l’inflazione (profitti di impresa, parte del lavoro autonomo e, seppure con ritardo, pensionati). Gli interventi del governo tengono in parte conto di questo, soprattutto nel sostenere i redditi più bassi. Ma i percettori di reddito fisso sopra i 35.000 euro sono quelli che ci stanno perdendo di più, almeno in termini relativi.