Fridays e Ultima generazione: con loro, ma diversi
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6 Febbraio 2024Editoriale
Piena dignità al nostro futuro/2
Come vogliamo chiamarli? Italiani non riconosciuti? Italiani nascosti?
Italiani segreti? Per me sono tutte persone in carne e ossa, giovanissime, cariche d’energia propositiva, mediatrici culturali ideali: Claudia, figlia di senegalesi, la prima volta venne alla Penny Wirton, dove insegniamo gratuitamente la nostra lingua agli immigrati, accompagnata dal padre il quale, fino a pochi anni prima, era stato uno di loro. Ne aveva fatta di strada!
Da analfabeta a interprete del mondo. Da vagabondo a impiegato. Da sradicato a marito con prole. Li vidi scendere le scale ed arrivare alla porta d’entrata dove già s’affollavano gli scolari: adolescenti bengalesi, famiglie sudamericane, donne ucraine con bambini piccoli, somale coperte dal velo, filippini, cinesi, magrebini… Nel momento in cui la ragazza si sedette al banco e aprì il manuale della sillabazione, rivolta al giovane nigeriano, suo coetaneo, ospite del centro di pronta accoglienza, che gli avevamo messo di fronte, mi resi conto di star assistendo a una ricomposizione del tessuto umano lacerato.
Claudia, nata a Roma, naturalmente bilingue, insegnava a leggere e scrivere a un profugo, senza arte né parte, il quale si trovava nella stessa situazione che era stata di suo padre: difficile scegliere una docente più adatta e motivata di lei. Eppure questa professoressa perfetta, lungimirante e consapevole del ruolo che stava esercitando, non possedeva ancora la cittadinanza italiana! Disponeva soltanto del permesso di soggiorno. Appena raggiunta la maggiore età, di certo l’avrebbe chiesta, in modo ufficiale, pagando la tassa prevista dalla legge, ma per ora il Bel Paese non gliela riconosceva. Come definirla?
Un’ingiustizia incarnata. La medesima condizione di Abdel, iscritto al liceo scientifico, che ci aveva aiutato a gestire quattro arabi non facili da tenere fermi intorno al tavolo, dal momento che non si volevano staccare gli uni dagli altri e quando stavano insieme ridevano e scherzavano ostacolando la concentrazione degli studenti presenti in sala. Era bastato che quel sedicenne dall’accento romanesco, i cui tratti somatici lo facevano assomigliare a un loro fratello di sangue, li avvicinasse pronunciando qualche battuta nel vecchio idioma dei padri, per vederli ricompattarsi ordinati e quasi timorosi, in soggezione, anche perché irresistibilmente attratti e incuriositi da un amico imprevisto col quale avrebbero potuto percorrere il sentiero dissestato verso la nazione dove avevano deciso di andare. Ho citato due casi paradossali ed emblematici tutto sommato positivi, ragazzi ben inseriti nella nostra comunità, senza dimenticare ciò che al contrario può accadere quando il mancato
riconoscimento della cittadinanza alle cosiddette seconde generazioni innesca un processo di emarginazione sociale potenzialmente distruttivo: stiamo parlando di gruppi di adolescenti che, invece di sentirsi italiani, come a tutti gli effetti, tranne quello giuridico, in realtà già sono, si voltano indietro, quasi cercando un punto d’appoggio identitario e rischiano di trovarlo alla maniera di un sasso da lanciare nel vuoto in cui annaspano. Le cronache metropolitane sono sempre più piene di segnali che dovrebbero allarmarci: gang etniche, microcriminalità, bullismi vari. Troppe volte la rabbia nasce dalle insolvenze amministrative. Il razzismo si forma nella risacca delle frustrazioni. Ecco perché la scuola gioca un ruolo decisivo: l’immigrato, come ognuno di noi, non va né criminalizzato, né idealizzato. Dobbiamo innanzitutto conoscerlo. E farci riconoscere. Ma se continuiamo a negare la cittadinanza ai suoi figli nati e cresciuti in Italia, quali speranze di rinnovamento possiamo coltivare?
Come non rendersi conto dell’assurdo in cui siamo precipitati? Non basta predicare l’accoglienza. Bisogna favorirla sistemando una volta per tutte questa intollerabile stortura legislativa, sulla quale le forze politiche non dovrebbero dividersi, né tantomeno cavalcare l’onda dei consensi auspicati o temuti: gli occhi dei nostri scolari ce lo chiedono, anche se spesso non sono ancora capaci di esprimerlo.
Eraldo Affinati