Concita De Gregorio
È l’uso che ne fai. Del frigorifero, della radio, del social network, dell’intelligenza artificiale. La colpa o il merito del risultato non è mai del mezzo: è di chi lo usa. Non è demerito del frigo se la pietanza è marcita, è che ce l’hai lasciata troppo a lungo. Non dipende da Instagram se la gente si fotografa di tre quarti allo specchio mostrando il sedere. Quello, il veicolo, fa viaggiare quel che ci metti dentro. Ogni intelligenza artificiale può essere assai facilmente sabotata da una deficienza naturale. È per questo che seguo con una certa apprensione il dibattito sui “pericoli” della GPT, gli scioperi degli sceneggiatori americani, le profezie apocalittiche sulla fine del lavoro degli uomini sostituiti, come nei film di fantascienza, dalle macchine. Mi sembra che non mettano a fuoco il punto, che non è cosa può fare una macchina: è cosa puoi fare tu della macchina. Quindi tra l’intelligenza sintetica e l’ignoranza artigianale è quest’ultima, mi pare, la grande minaccia. La piaga, la nube nera all’orizzonte. Ma è del resto sempre stato così: è cosa ne fai, della scoperta di Fermi. Non è rompendo il termometro che elimini la febbre, non è smettendo di inventare e di immaginare il futuro che ti metti al riparo dal pericolo. È investendo sulla capacità degli uomini di gestire le nuove conoscenze: governarle, controllarle, usarle – mi vien da dire forse con ingenuità – a fin di bene.
Il contrario dell’intelligenza non è difatti l’idiozia, è l’ignoranza. L’idiozia tecnica, quella per cui una carenza fisica o psichica ti impedisce di attivare i neuroni condannandoti a alla demenza, relativa o assoluta, riguarda una percentuale minima della popolazione. Esseri sfortunati e incolpevoli ai quali si deve ogni sostegno, cura e amorosa attenzione. È l’altra la sciagura. L’idiozia da incompetenza, da ignoranza, il non sapere nulla che ti convince di sapere tutto. Solo gli stolti pensano di non essere mai in errore. Difatti, comandano.
Ho visto in rete una foto di Lady Diana elaborata dalla GPT, la chat dell’intelligenza artificiale, che la mostra come sarebbe oggi a 61 anni se non fosse morta nel ’97. E se non le fosse successo niente nel frattempo, aggiungo: niente che potesse cambiarne la fisionomia, una cicatrice sul volto il segno di un intervento chirurgico al collo un’alopecia, una miopia grave che la costringesse a portare gli occhiali. La GPT si limita a elaborare i dati del passato e a proiettarli nel futuro secondo l’algoritmo dell’invecchiamento naturale: non prevede, non può prevedere gli inciampi e i guasti della vita. Quindi bella, interessante la foto. Ma inautentica, ingannevole. La vita scolpisce sui volti quel che nessuna profezia aritmetica può immaginare. Ho letto alcune traduzioni fatte dalla GPT: efficaci al 90 per cento, ma manca sempre qualcosa. Una sfumatura, una piega di senso, un’intenzione. Manca il pensiero. Serve qualcuno che la rilegga e la corregga, serve una persona che sovraintenda al lavoro della macchina. Il vero problema, mi pare, è che oggi a sovraintendere sono sempre più numerosi coloro che ne sanno meno della macchina. Ho visto gruppi di scrittura cinematografica al lavoro: erano composti da persone giovani e assertive, molto preparate su quel che “funziona” e quel che no. Ma alla proposta «potremmo immaginare un finale tipo Il laureato» (non una originalissima proposta, devo ammettere) i loro sguardi si sono fatti opachi. Non l’hanno visto, Il laureato. Ho ripensato a lungo a quando a Sergio Leone in America hanno spiegato che il suo film andava tagliato di un’ora, lo racconta magistralmente il documentario di Francesco Zippel. Ho immaginato a cosa sarebbe successo oggi. Non avrebbe potuto nemmeno iniziare a girarlo, quel capolavoro. Il tema è sempre lo stesso: inseguire i desideri o suscitarli. Replicare quel che la gente vuole o offrire qualcosa che ancora non sa di volere, perché non c’è. Il rischio. Rischiare in invenzione significa andare in terra incognita. Ma il rischio d’impresa prevede che ci sia una mente illuminata, visionaria: che ci sia chi immagina qualcosa che non è immagazzinata nei dati raccolti fin qui, qualcosa che ancora non esiste.
Mi ha detto una meravigliosa cineasta, inventrice di mondi, Alice Rohrwacher: «L’intelligenza artificiale non sbaglia, e la bellezza invece è sempre nell’errore». Mi ha detto Esmeralda Calabria, cucitrice di immagini, costruttrice di film: «Ho vinto un premio, da giovane, per un film di cui in post produzione dicevano: è fuori sincronia, è sbagliato». Non esisterebbero Il padrino, Caligola di Camus, Il giovane Holden, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Non esisterebbero capolavori, perché se ci fosse la formula esatta per costruirne uno ne avremmo milioni, e per fortuna no. Ne capita uno ogni tanto, e hai voglia ad avere i soldi per far dipingere la Cappella Sistina se non hai Michelangelo.
L’intelligenza artificiale è una immensa banca dati, enormemente più grande di quel che mente umana può contenere, ed è una previsione di continuità: replica quel che già esiste. Ma non immagina, non sbaglia, non rischia. È lì, a nostra disposizione, come un immenso frigorifero. Dipende da come lo usiamo. Dipende da cosa scegliamo di prendere o lasciare. Dipende da noi. L’investimento da fare è in conoscenza, educazione, istruzione, cultura. L’investimento è sugli uomini, che sappiano sempre di più – non di meno. È questa, l’ignoranza progressiva, la vera sconfitta. Vinceranno le macchine e ci distruggeranno, certo, sì: ma solo se non avremo la capacità di usarle. La conoscenza e la fantasia per dare loro la direzione che vogliamo. Solo se avremo rinunciato. Noi, e chi scegliamo che governi in nostro nome.