C’è un problema di fondo: storicamente la classe dirigente italiana non ha scelto di investire nell’università in modo paragonabile agli altri grandi Paesi europei. Ci sono stati momenti di maggiore speranza, ma non abbiamo mai colmato il divario e, al mutare dei governi, la politica di fondo non è cambiata in modo strutturale.
In questo contesto cosa rappresenta il Pnrr?
Un’iniezione di risorse importante, ma temporanea. Andrà gestito il picco di assunzioni di ricercatori precari. A fine Pnrr servirebbe un piano straordinario per far sì che le università includano quelli più portati per la carriera accademica, e che le imprese e la PA assorbano questi giovani competenti e formati. Altrimenti il rischio è che vadano ad arricchire Francia, Svizzera, Germania, lasciando l’università italiana perennemente sottodimensionata.
Come al solito…
È un problema strutturale almeno dalla crisi del 2007-2008. Esportiamo sistematicamente non solo giovani e laureati, ma anche ricercatori, con una perdita economica annuale nell’ordine di miliardi di euro. La Commissione Ue stima almeno 50mila ricercatori italiani in giro per l’Europa. La questione politica cruciale è: perché l’Italia non investe nell’università, per portarla in linea almeno con la media Ue, mentre per altri scopi riesce a trovare le risorse?
Di che cifre si parla?
L’università riceve dallo Stato poco più di 9 miliardi l’anno. Per aumentarne il bilancio del 50% – nell’arco di alcuni anni – ci vorrebbero 4,5 miliardi, una cifra certo importante, ma di un ordine di grandezza consueto per iniziative di interesse nazionale. È una questione di volontà politica: evidentemente si preferisce investire risorse in altre direzioni.
Questo tocca anche il diritto allo studio.
È un tema fondamentale, anche perché in Italia la quota di giovani nella fascia universitaria che vanno all’università è tra le più basse dei Paesi Ocse. Una prima spiegazione è che andare all’università spesso non conviene: il mercato del lavoro non retribuisce adeguatamente i laureati rispetto ai diplomati, diversamente dall’estero. La seconda è che l’università italiana è purtroppo tornata a essere classista. La disponibilità di alloggi per fuorisede e di un sostentamento durante gli studi è quindi decisiva. Terzo motivo: in Italia l’istruzione terziaria professionalizzante è meno diffusa rispetto a molti altri Paesi. Negli Usa ci sono i community college, nei Paesi di lingua tedesca le Fachhochschulen. In Germania su 3 milioni di studenti terziari circa 1 frequenta queste scuole. Sono i nostri Its, ma con numeri irrisori. Servirebbe investire su una vera rete nazionale di università professionalizzanti.
Aumentare i laureati di prima generazione è un punto del manifesto della sua candidatura. Perché?
Sei un laureato di prima generazione se nella tua famiglia nessuno si è mai laureato prima di te; io stesso lo sono. Questo dato è correlato con l’appartenenza a fasce sociali medio-basse. Oggi, se guardiamo le statistiche di chi riesce a laurearsi, c’è una correlazione forte con l’appartenenza ai ceti medio-alti. Per rendere l’università meno classista è importante aumentare i laureati di prima generazione, con il diritto allo studio e con una politica di medio-lungo termine che incoraggi i ragazzi a studiare fin dalle medie.
Bisogna per forza aprirsi di più ai privati o si possono immaginare politiche diverse?
Negli ultimi 40 anni l’università è stata vista come istituzione quasi solo dedicata a sostenere sviluppo economico ed imprese. È un ruolo importante, particolarmente per un Politecnico ma, come ho scritto nel libro Università futura, limitarsi a ciò è riduttivo e distorsivo. Ribadisco che il problema è strutturale. Dato che esportiamo molti laureati, provocatoriamente potremmo dire che (nonostante siamo agli ultimi posti per laureati in rapporto alla popolazione) ne abbiamo comunque troppi per il nostro sistema produttivo e la nostra PA. Che fare? Semplificando, ci sono due opzioni: continuare a esportare laureati come negli anni 50 esportavamo minatori; o aumentare il tasso di conoscenza del sistema produttivo, in modo che risulti attraente assumere più laureati, con grande beneficio per il Paese.