La miscela esplosiva era già pronta, per la sinistra italiana, perdita di consenso unita a perdita d’identità, col risultato evidente di una perdita di orizzonti: mancava soltanto l’innesco. Chi cercava il detonatore lo ha infine trovato a Bruxelles, nello scandalo delle tangenti pagate dal Qatar a parlamentari ed ex parlamentari per orientare le politiche dell’Unione, con il gruppo socialista come snodo cruciale per l’ingerenza di Doha negli affari europei, insieme coi servizi segreti del Marocco. Un’emergenza criminale che vede gli indagati italiani usati come pedine dai governi e dalle intelligence straniere, permeabili alle infiltrazioni, sensibili alle dazioni, pronti a vendere la loro integrità, l’indipendenza delle istituzioni, la difesa degli interessi europei. In una parola, l’autonomia della politica.
L’Europa spalanca così la crisi del Pd, anzi la incastona in una cornice drammatica che sconcerta gli elettori: erano delusi, la svendita socialista di Bruxelles li ha offesi, oggi si sentono traditi. Il partito nel suo insieme è chiuso nell’angolo dove prende colpi dal governo di destra e dal populismo di sinistra, come un pugile in difficoltà che aspetta soltanto il gong. Soprattutto — ed è la cosa più stupefacente — il partito non è all’altezza del dramma che sta vivendo.
Incapace di trovare il tono dell’emergenza, fatica a sintonizzarsi sulla frequenza dell’allarme e a interpretare lo smarrimento della base, portandolo al centro della discussione interna. Non riesce cioè a dire semplicemente la verità, che coincide con l’unica speranza di salvezza, spiegando che il Pd è paralizzato perché non sa che cos’è, qual è oggi la sua natura e dunque la sua missione, così come non decifra chi rappresenta, e dunque ignora dove deve andare e a fare che cosa.
Se uno dei leader che si marcano a vista nel surplace, per evitare qualsiasi fuga in avanti, trovasse le parole per denunciare l’impotenza e l’indeterminatezza di questo declino, e ricordasse i doveri di una sinistra sicura di sé e del suo spazio di azione nell’Italia di oggi, rimetterebbe automaticamente in moto il meccanismo politico bloccato dentro il partito e fuori.
Dovrebbero essere i candidati alla segreteria che si sfidano alle primarie gli interpreti di questo bisogno e di questo disvelamento della realtà. Invece la corsa interna alla leadership non ha un contesto, sembra la scadenza burocratica di un normale avvicendamento, un concorso in tempo di pace. Come se la destra non avesse dominato il campo alle elezioni; come se non fosse la destra più estrema della storia repubblicana, scelta in quanto tale dagli elettori; come se non avesse il progetto di una sfida culturale alla sinistra, una contesa per l’egemonia all’insegna del sovranismo, del nazionalismo, del presidenzialismo, senza spiegare se intanto la democrazia liberale resterà ancora il modello per il nostro Paese o se verremo risucchiati a fianco di Orbán nella polemica sullo Stato di diritto.
Non basta questo dato di realtà per imporre alla sinistra uno scarto nelle procedure e nelle abitudini, ma prima di tutto un soprassalto nella coscienza di sé e dei suoi compiti? Mentre la destra governa c’è un altro Paese a cui parlare, che ha un’idea di crescita e sviluppo dentro le regole e dentro l’Europa, è pronto a investire in un patto tra l’emancipazione e l’innovazione, ed è ancora sensibile a quella cultura della r esponsabilità e della legalità che nonostante tutto il riformismo occidentale può esprimere. In più c’è un ceto sociale che vive nel risentimento dell’esclusione, a cui va dato un segno di riconoscimento e una prospettiva di cambiamento, con l’impegno che i principi della Costituzione e le promesse della democrazia non valgano solo per i garantiti, come un bitcoin di riserva.
C’è insomma uno spazio che comporta un dovere, nell’interesse del Paese: una sinistra europea, occidentale, radicale nei valori ma non ideologica può riequilibrare una destra che ha un piede nel sistema e uno fuori, nel territorio redditizio ma ambiguo dell’antipolitica populista. Solo che quello spazio oggi non si vede, quasi servisse un atto di fede per individuarlo, riconoscerlo, suscitarlo e trasformarlo in un campo politico. Quella fede vacilla, e non si conserva nelle liturgie, perché i riti garantiscono la forma, non la sostanza. È ora di dire che le primarie non risolvono da sole tutti i problemi che la sinistra ha davanti a sé. Saltano le intermediazioni, portano la scelta del leader fuori dagli apparati, coinvolgono il popolo: ma non rispondono all’esigenza di restituire al partito un’identità sicura, di dotarlo di una cultura, di fornirgli una strategia delle alleanze, di costringerlo a ridiscutere il sistema interno di selezione delle élite, per arginare la corruzione.
È tutto ciò che manca oggi, ed è proprio ciò che più è necessario per competere con la destra. La politica ha inventato da tempo lo strumento a disposizione di ogni partito per la ridefinizione di sé davanti al Paese: il congresso in forma classica, dove discutere alla luce del sole, non in uno schema binario ma nella complessità delle culture che formano una moderna organizzazione di soggetti e interessi progressisti, dove confrontarsi e contarsi su tutto ciò che viene prima della leadership, ma la determina, la definisce, la indirizza e la arma. Poi arriverà il momento di scegliere il segretario. Ma prima bisogna scegliere il destino della sinistra del nuovo secolo.