Ludus, Irene Lupi
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Una fotografia di Ugo Mulas — la Verifica 13. Autoritratto con Nini (1972) — pone il problema della cultura del fotografo e del suo lascito intellettuale. È questa la vicenda che voglio raccontare. La foto è diventata ora la copertina del catalogo della grande mostra di Palazzo Reale a Milano (Ugo Mulas. L’operazione fotografica, a cura di Denis Curti e Alberto Salvadori, fino al 2 febbraio), un imponente volume che mette ancora una volta l’accento sull’importanza delle Verifiche, ultima, fondante ricerca di Ugo Mulas sul linguaggio fotografico, dunque una storia necessaria proprio per capire le ragioni delle scelte che hanno impegnato Mulas dal 1970 sino alla fine nel 1973 (muore il 2 marzo a 44 anni). Ma prima si intreccia a questa storia un diverso racconto, un racconto che ho vissuto nella casa milanese di via Spallanzani, un piano per lo studio fotografico con il laboratorio, un piano per la casa, per Nini, la moglie, e per Melina e Valentina, due bambine dolcissime. Ugo è malato da molto tempo: io e la sua assistente Paola Mattioli lo incontriamo qui, lei al piano terra dove c’è lo studio, io nell’appartamento di sopra. Lei lo aiuta in laboratorio dove Ugo stampa in modo nuovissimo e consapevole le sue fotografie in bianco e nero e lo segue nelle esplorazioni sul campo, io preparo dagli inizi del 1970 con Ugo la difficile selezione delle fotografie per la mostra di Parma, che aprirà nel maggio del 1973, quando Ugo è ormai scomparso da tre mesi, una mostra per la quale il fotografo ha scelto attentamene tutte le immagini, la loro successione, i loro rapporti interni, creando un racconto complesso.
Allora, parlando con Ugo, mi rendo conto della complessità e della ricchezza delle sue scelte e penso che sia indispensabile registrare le sue parole. Così dal 7 novembre 1972 al 1° gennaio 1973, mediamente quattro volte alla settimana, vado a Milano a intervistare Ugo sulla sua storia, sulle scelte. Quelle parole diventano la prima parte del catalogo della mostra di Parma, un centinaio di pagine importanti per capire il senso della fotografia Verifica 13. Autoritratto con Nini. Cioè di tutto.
Ancora un chiarimento: io allora avevo poco più di trent’anni ed ero un professore incaricato all’Università di Parma. L’altra protagonista di questa storia, Paola Mattioli, studentessa universitaria che segue con entusiasmo le lezioni di Enzo Paci sulla fenomenologia di Edmund Husserl, prepara una tesina sulla fotografia per l’esame di Estetica con Gillo Dorfles e conosce e poi diventa assistente di Ugo Mulas. Lascio a lei la parola, testimonianza preziosa (in Elda Cerchiari Necchi, Milano mia, Polaris, 2015) di chi ha vissuto per anni la ricerca di Ugo. «Per sdebitarmi — scrive Mattioli — di tanti insegnamenti e per partecipare anch’io al clima di scambio intellettuale, raccontavo a Mulas quello che succedeva in università: le occupazioni e le assemblee, ma anche i professori, gli argomenti (Marx, Panofsky, Husserl e la fenomenologia), le linee di pensiero che mi avrebbero portato alla tesi di laurea; in questo contesto Paci mi consiglia di leggere L’oeil et l’esprit di Merleau-Ponty e mi regala addirittura una copia della traduzione italiana ancora inedita (su velina sottile, quella che si metteva alternata alla carta carbone). La leggo e la porto a Ugo, intuendo l’interesse che avrebbe potuto costituire per lui che stava lavorando alle Verifiche, al libro Einaudi e alla mostra per Quintavalle. Nelle note della Verifica 13. Autoritratto con Nini dirà: “Qui, su uno stesso fotogramma, Nini e io siamo insieme: Nini è a fuoco, io sono sfocato. È a fuoco perché ero io a fotografarla, la vedevo così e così volevo vederla, perché voglio sempre vedere col massimo di chiarezza quello che mi sta davanti, e fotografare è vedere e voler vedere, prima di tutto. Il mio viso è sfocato perché c’è una sola parte del mondo sensibile che l’uomo, che può vedersi mentre guarda secondo Merleau-Ponty, non riesce a vedere di sé: il viso. Tutt’al più si può rendere una idea approssimata, attraverso la memoria di altre fotografie, il narcisismo di una superficie riflettente, qualche elemento casuale, ma l’immagine resterà imprecisa, sfocata”».
Nel commento a questa Verifica le parole di Ugo che ho registrato allora sono illuminanti. Prima di tutto Ugo fa riferimento alla Verifica 2. Autoritratto per Lee Friedlander, il fotografo americano che ha lavorato a fondo sui riflessi e sul volto specchiato nei retrovisori di un’auto o nelle vetrine della città. Qui dunque Mulas si mostra con la camera che copre il viso e uno specchio che propone lo spazio retrostante e la sagoma in controluce del corpo del fotografo. Ma nel caso della Verifica 13 il ritratto di Ugo Mulas sfocato è spiegato così: «La ragione per la quale io sono sfocato è che il fotografo, sia che stia dietro la macchina fotografica sia che ci si metta davanti, non si può mai vedere. La ragione è elementare, se sta dietro la macchina fotografica, anche se si fotografa in uno specchio, avrà sempre davanti alla faccia la macchina fotografica che gli coprirà almeno buona parte del viso, a meno che non usi una delle macchine Reflex, ma io lavoro sempre con questo formato quando faccio lavori per me. Comunque poi non mi interessa la fotografia nello specchio, non mi sono mai piaciute le fotografie negli specchi, questa forma di narcisismo. Il rapporto non è fra me e lo specchio, il rapporto è fra me e la realtà, fra me e la macchina, fra me e il mondo. Così nel momento stesso in cui il fotografo abbandona la macchina, abbandona il suo posto normale di osservazione e da operatore diventa oggetto, ponendosi di fronte alla macchina, ecco che, in quel momento, il fotografo ancora non si vede, perché l’unica parte del mondo e del nostro corpo che noi non possiamo vedere è la nostra faccia. Autoritrarsi a fuoco è un falso, è una banalità, non spiega l’operazione».
Da queste parole appare evidente che Mulas ha molto riflettuto su L’occhio e lo spirito scritto da Merleau-Ponty nel 1964 ma anche sulla Fenomenologia della percezione, il grande volume di Merleau-Ponty pubblicato da Gallimard nel 1945 e in Italia dal Saggiatore vent’anni dopo.
Vediamo alcuni passi de L’occhio e lo spirito (Edizioni SE, 1989): «Immerso nel visibile mediante il suo corpo, anch’esso visibile, il vedente non si appropria di ciò che vede; l’accosta soltanto con lo sguardo… L’enigma sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e visibile. Guarda ogni cosa, ma può anche guardarsi, e riconoscere in ciò che vede l’altra faccia della sua potenza visiva. Si vede vedente, si tocca toccante, è visibile e sensibile per se stesso». Un altro passo pone il problema dello specchio: «La rassomiglianza fra la cosa e la sua immagine speculare è solo una denominazione esteriore che appartiene al pensiero… La sua immagine nello specchio è un effetto della meccanica delle cose; se egli vi si riconosce, se la trova somigliante, è il suo pensiero che tesse questo legame: l’immagine speculare non è niente di lui».
Vediamo adesso due brevi passi della Fenomenologia della percezione. Il primo è relativo alla percezione in relazione a chi percepisce: «Poiché le relazioni fra le cose o fra gli aspetti delle cose sono sempre mediate dal nostro corpo, l’intera natura è la messa in scena della nostra propria vita… La cosa non può mai essere separata da qualcuno che la percepisca, non può mai essere effettivamente in sé perché le sue articolazioni sono quelle stesse della nostra esistenza e perché essa si pone al termine di uno sguardo o al termine di una esplorazione sensoriale che l’investe di umanità. In questa misura ogni percezione è una comunicazione o una comunione…».
Lo sguardo sul mondo è sempre nel segno dell’umano e lo conferma un altro passo questa volta rivolto al tempo: «Il tempo non è un processo reale, una successione effettiva che io mi limiterei a registrare. Esso nasce dal mio rapporto con le cose. Nelle cose stesse l’avvenire e il passato sono in una specie di preesistenza e di sopravvivenza eterne; l’acqua che passerà domani è in questo momento alla sorgente; l’acqua che è appena passata è adesso un poco più in giù, nella valle. Ciò che è passato o futuro per me è presente nel mondo».
La riflessione sul mondo e la funzione del fotografo che Mulas propone con la Verifica 13. Autoritratto con Nini è una chiave interpretativa di tutte le Verifiche. Così riflettono il tempo la Verifica 1. Omaggio a Niepce; la 3 Il tempo fotografico; la 4 L’uso della fotografia. Ai fratelli Alinari. È invece dedicata allo spazio la Verifica 5. L’ingrandimento: il cielo per Nini. L’ultima Verifica è dedicata a Marcel Duchamp: le fotografie di Duchamp a New York che cammina o siede davanti a una scacchiera vuota propongono non-azioni — il camminare, il non giocare sulla scacchiera — che fanno capire la complessa riflessione del fotografo.
Molti artisti e fotografi si sono posti il problema dell’azione dell’artista nello spazio e nel tempo; Mulas, rispetto a tutti gli altri, ha maturato una sua riflessione autonoma approfondendo la lezione di Merleau-Ponty e sperimentandola attraverso l’analisi strutturale dell’immagine. Mulas scrive in tempi in cui l’analisi del linguaggio è diventata per tutti punto di passaggio obbligato: lo suggeriscono le riflessioni proposte dopo la traduzione del Cours de linguistique générale (1916) di Ferdinand de Saussure.
Ma se vogliamo capire il peso di Husserl e di Merleau-Ponty nella riflessione di Mulas dobbiamo considerare la funzione del vuoto, del tempo sospeso. Così nella serie Ossi di seppia che unisce le riflessione sull’informale a quella sui legni bruciati di Burri, così la ricostruzione del gesto di Lucio Fontana che taglia la tela o la incide con un punteruolo, così gli spazi senza gli artifici degli studi d’artista di Giacomo Manzù e Giorgio de Chirico. Ed è pure nel segno del vuoto, delle assenze, la serie delle fotografie su Milano, alcune delle quali divenute scenografie per il Woyzeck: tracce di passaggi scavati nel fango, fumi di fabbriche in lontananza, tralicci controluce, figure che camminano nella nebbia, il dormitorio dove Mulas fa chiudere gli scuri e accende le luci notturne, schieramento di letti vuoti.
Il fotografo non vuole facili descrizioni, gli basta la traccia, la memoria di presenze possibili. Per lui non può esistere conoscenza del mondo senza la consapevolezza che vediamo e siamo visti, ma non possiamo vedere il nostro volto e del nostro corpo vediamo solo frammenti, scorci rubati, riflessi di altri sguardi. Per questo nella Verifica 13 il volto di Nini è perfettamente a fuoco e quello di Ugo è sfocato. Ho sempre pensato che questa immagine fosse, oltreché una dichiarazione di poetica, una riflessione sulla percezione del mondo ma anche un ultimo, dolcissimo addio.
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