Prepariamoci alla guerra», dice Emmanuel Macron, mentreil resto dell’opinione pubblica europea si chiede che fine ha fatto la principessa Kate e i resti dell’opposizione italiana si dilaniano sul candidato in Basilicata. L’Occidente vive questa incongrua paranoia: è a pochi passi dalla catastrofe, ma ha tutt’altro a cui pensare.
Può accadere così che il presidente russo dichiari a Ria
Novosti :«Siamo pronti all’uso di armi nucleari» e a schierare «i nostri soldati al confine con la Finlandia». Può succedere che il presidente francese, riunito con il suo omologo tedesco, risponda: «Anche noi dobbiamo essere pronti a inviare truppe in Ucraina». E può capitare che queste enormità — che in altre epoche avrebbero riempito le piazze di popoli indignati — precipitino invece nell’accidia generale. Da ricchi e irenici occidentali, abbiamo capito poco di quello che sarebbe servito dopo il crollo del socialismo reale franato insieme al Muro di Berlino.
lcontinua a pagina 29
segue dalla prima paginaPoi non abbiamo capito nulla di quello che nel frattempo maturava nella Russia profonda dell’Uomo del Cremlino e dei suoisiloviki.Larevanche post-zarista, il sogno neo-imperiale attinto dai filosofi eurasiatici, da Il’In a Danilevskij, le Anschluss silenziose, dalla Cecenia alla Crimea, infine il nichilismo totalitario di un exapparatcik del Kgb trasformato in autocrate grazie alla geopolitica del gas e all’assassinio dei dissidenti, da Navalny a Politkovskaja.
Quando l’armata russa ha invaso l’Ucraina, il 24 febbraio 2022, abbiamo pensato che fosse solo un’improvvisa mattana di Mad Vlad, come allora lo chiamava qualche anima candida. Abbiamo creduto che ce la saremmo cavata sanzionando l’aggressore e armando l’aggredito. Insomma, abbiamo sognato che non valesse la pena “morire per Kiev”, che quella fosse una guerra altrui, per noi gestibile da remoto. Solo adesso abbiamo realizzato che le cose non stanno così. Dopo due anni di guerra d’attrito la Russia soffre ma regge. Ha seppellito in gloria i suoi 300 mila soldati caduti al fronte (poca carne da cannone rispetto ai 40 milioni di sovietici sacrificati nel secondo conflitto mondiale). Ha riconvertito in corsa la sua economia bellica (con la Rostec e le sue consociate che sfornano missili e munizioni giorno e notte). Ha aggirato in fretta gli embarghi con tecnologia militare dei satelliti del Far East (mentre alcune industrie Usa ancora forniscono semilavorati alla Difesa di Mosca). Forte di questa resilienza, Putin si prepara a celebrare il suo plebiscito, in un weekend elettorale che lo consacrerà al potere per altri sei anni (avendolo occupato già dal 1999 e potendolo mantenere fino al 2036).
Purtroppo è l’Ucraina che non ce la fa più. Il suo esercito ha poche armi. Soprattutto, non ha quasi più soldati, ed è la ragione che spinge i russi a bombardare i centri di addestramento nell’oblast di Leopoli, e il nuovo capo delle Forze Armate ucraine Syrsky a chiedere ai Paesi Nato di formare nelle loro caserme le reclute da mandare al fronte. A questa disparità di forze sul campo, nelle condizioni date, non c’è rimedio. Se non quello, paradossale, suggerito dal callido generale Kyrylo Budanov, capo dell’intelligence di Kiev: l’unico modo per dissanguare davvero l’esercito russo sarebbe costringerlo a occupare l’intera Ucraina.
Impensabile, ovviamente. Non resta che resistere, quindi. Ma in che modo? E fino a quando?
Qui cade l’Occidente, confuso, sfasato, diviso. Il declino dell’Impero Americano è nelle cose. Il Gendarme della Terra non c’è più lungo la faglia Ovest-Est (come dimostrano le difficoltà della Casa Bianca a far passare i nuovi aiuti a Zelensky) né sul Quadrante Mediorientale (come conferma Netanyahu, sordo alle sirene di Washington). Di Nato, a dispetto della postura assertiva di Stoltenberg, è quasi inutile parlare: le esercitazioni annunciate di qui a maggio mascherano solo l’impotenza, al cospetto di opinioni pubbliche degli Stati membri sempre più refrattarie alle logiche belliciste.
Resta l’Europa, sola con se stessa, quasi orfana degli Stati Uniti e del Patto Atlantico, a sua volta stordita, stranita, immemore del suo posto nel mondo e nella Storia. Così si spiegano le agitazioni delformato franco-tedesco-polacco, che prima del vertice di ieri sembrava preludere al peggio e che invece alla fine è servito a ipotizzare una “coalizione pro-Ucraina per l’artiglieria a lungo raggio”. Così si giustificano le contraddizioni di Macron, che all’inizio del conflitto ha teso la mano a Putin, mentre adesso si dice pronto a schiacciarla boots on the ground. Così si comprendono i turbamenti di Scholz, che nonostante un piano di riarmo da 100 miliardi non si decide a fornire i missili Taurus che Zelensky reclama da mesi. Così, su una scala infinitamente ridotta, si inquadrano i problemi di Meloni, che ha ben poco da offrire a Kiev, dovendo fornire i sistemi Samp/T necessari al lancio dei missili Aster 30, cioè gli stessi armati sulla Duilio impegnata nel Mar Rosso contro gli Houti. In questa penuria, non è un caso che il primo fornitore di munizioni all’Ucraina sia la Corea del Sud.
Ma l’Unione non è solo stanca di guerra. È anche inabile a pensare la pace (tanto da sospettare di filo-putinismo persino papa Francesco, che da pastore di anime elogia «il coraggio della bandiera bianca», come valore universale, non certo come invito alla resa di Kiev). E per fortuna che a frenare le improvvide fughe in avanti dell’Eliseo c’è il Quirinale: tocca a Mattarella ricordare che la pace è «un dovere», l’Italia ripudia la guerra e deve «costruire ponti di dialogo». Nel maggio 2022 il governo Draghi consegnò al segretario dell’Onu Guterres un piano per il cessate il fuoco, la conferma dei confini ucraini fissati al momento dell’indipendenza, l’autogoverno per le aree filorusse, l’Ucraina nella Ue e i negoziati per un nuovo trattato di Helsinki tra Usa, Ue e Russia per la pace nel Vecchio Continente. Sarebbe bello se Meloni lo rilanciasse, invece di accontentarsi dei bacetti sulla fronte di nonno Biden.
Per tutte queste ragioni, adesso, Putin è pronto ad alzare la posta.
Vede le debolezze occidentali, e sa che può sfidarci senza rischiare troppo, infrangendo persino il tabù nucleare. Con un fattore aggiuntivo, che può giocare a suo favore. Noi avremmo bisogno di “pazienza strategica”, per continuare a sorreggere la battaglia per la sopravvivenza di Kiev, che è anche la nostra. Ma non c’è più molto tempo. Se a novembre Trump vincesse le presidenziali e imponesse definitivamente il neo-isolazionismo americano, per il despota russo si aprirebbero spazi enormi per i suoi deliri da Grande Dittatore. Ecco perché quel che resta della comunità euroatlantica dovrebbe moltiplicare gli sforzi adesso, in un senso o nell’altro, prima dell’Armageddon prossimo venturo.
Resta valida la lezione di Karl Marx, che il 14 luglio 1853, sulNew York Daily Tribune,
scriveva: “L’Orso russo è di certo capace di tutto, almeno fino a quando sa che gli altri animali con cui ha a che fare non sono in grado di fare nulla”. Quegli “altri animali” oggi siamo noi. Chiamati a una drammatica assunzione di responsabilità. Che ci impone di non lasciare solo Zelensky, perché la sconfitta dell’Ucraina sarebbe una sconfitta dell’Occidente. Di arginare Putin, perché il suo folle progetto di nuovo Russkij Mir sancirebbe la vittoria dei regimi autoritari sulle democrazie liberali. Infine di evitare la terza guerra mondiale: per lunghi decenni ci è sembrata impensabile, mentre oggi ci pare possibile. E ne parliamo normalmente, come se niente fosse, tra un Mattinaledi Fazzolari e una lite tra i Ferragnez.