How Trump Will Change the World
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L’OLIGARCHIA TECNO-LIBERISTA
Scende la notte sulla democrazia americana. La vittoria straripante di Donald Trump cambia antropologicamente oltre che politicamente la bussola della politica trasformando il Paese in un’oligarchia liberale, una società tecno-liberista, guidata da oligarchie miliardarie e onniscienti, crepuscolo di quell’idea di democrazia partecipativa che il preambolo della Costituzione americana con il suo “We the People” proclamava orgogliosamente in ossequio al monito di Montesquieu, il padre del bilanciamento dei poteri, che affermava: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne». Una “Wille zur Macht” partorita già dall’assalto a Capitol Hill e divenuta negli anni volontà di potenza e di rivincita.
E accanto alla notte della democrazia già si affaccia quella dei “lunghi coltelli”.
Qualcuno – viste le accertate simpatie per i generali nazisti che Trump ha proclamato pubblicamente – già chiama così la vendetta che il vincitore si accinge a prendere sugli oppositori che nella sua visione di intoccabile re taumaturgo gli hanno sbarrato la strada.
Primi della lista, la giudice distrettuale Tanya Chutkan e il procuratore speciale Jack Smith. A seguire, piccoli e grandi traditori, avvocati voltagabbana, ex collaboratori che hanno patteggiato con le procure in cambio dell’immunità.
Del resto, già alla vigilia del voto Trump e il suo vice J.D.Vance, per non dire di Elon Musk, erano stati metaforicamente più che espliciti: « Non faremo prigionieri». La schiacciante vittoria suggellata dall’imprimatur del voto popolare consente al Gop non solo di conquistare il Senato, ma anche di stringere nelle mani di Trump la Corte Suprema, consolidando un potere senza precedenti. Alla Casa Bianca farà ritorno un presidente che si considera al di sopra della legge: non perseguibile per i crimini contestati, graziato per quelli già condannati. E ora, libero da vincoli, è pronto a portare avanti forzature costituzionali e istituzionali dirompenti, destinate a lasciare un segno profondo nel cuore del sistema americano, che da democrazia parlamentare va trasformandosi in oligarchia liberale guidata dagli uomini più ricchi del mondo.
Uno dei quali, Jeff Bezos, proprietario di Amazon e del Washington Post, è fulmineamente saltato sul carro del vincitore negando per la prima volta al quotidiano che scoperchiò l’affare Watergate il tradizionale endorsement ai dem. Peccato che l’esergo che sta sotto la testata del
Post profeticamente dica: Democracy dies in darkness.
La democrazia muore nelle tenebre. Appunto.
E così, a settantotto anni, con due condanne penali, due tentativi di impeachment, una muraglia di capi d’imputazione e di debiti con il fisco che verranno condonati, Donald Trump si accinge a guidare l’America con gli enormi poteri che il voto del 5 novembre gli ha assicurato. Grazie al pieno controllo di Camera e Senato per i prossimi due anni, Trump godrà di una libertà pressoché totale di attuare il programma promesso in campagna elettorale. Gli effetti sullo scenario internazionale potrebbero essere immediati e dirompenti: tra le prime mosse del nuovo governo ci sarà con ogni probabilità l’introduzione di dazi doganali, una scelta che rischia di innescare guerre commerciali su vasta scala, con ripercussioni dirette anche per l’Europa. Trump – che per certi versi appare un prosecutore radicale della Dottrina Monroe, antesignana di quel Destino Manifesto che ha avallato per decenni il diritto americano di respingere ogni interferenza straniera sull’intero continente e insieme la ferrea inclinazione a un vantaggioso isolazionismo – è un autentico adoratore dei dazi doganali. Il protezionismo che reclama ai danni di chiunque attenti alle partite correnti americane può risolversi – e molti lo temono – in un danno netto per tutte le economie esportatrici, a cominciare dalla Cina per finire con l’Europa.
C’è da giurare che non pochi membri della Ue cercheranno qualche accordo sottobanco con il successore di Joe Biden.
E mentre il mondo si mette in coda per congratularsi con il presidente designato, in politica estera, Trump sembra deciso a prendere le distanze dalla guerra in Ucraina e a ridurre l’impegno statunitense all’interno della Nato. La nuova amministrazione chiederà ai Paesi arabi un ruolo più attivo nella soluzione del conflitto con Israele, spostando sempre più l’attenzione geopolitica verso l’Asia. L’intera regione indo-pacifica diventerà il centro delle sfide future, segnando una decisa svolta nella politica estera americana. Allettati dai vantaggi economici, gli Accordi di Abramo che legano Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrein e Israele in un circuito di reciproco riconoscimento diplomatico potrebbero con Trump riprendere vigore.
Pecunia non olet, e le satrapie arabe lo sanno bene. E a proposito di pecunia, anche la Nato dovrà battere cassa presso i propri membri: l’ombrello economico-militare che per ottant’anni ha mantenuto l’alleanza atlantica ora esige – Trump è chiarissimo sul tema – che ciascuno faccia la propria parte. Ovvero, impieghi almeno il 2% del proprio Pil in spese militari. Difficile che qualcuno gli possa dire di no.