La sassaiola su Elly Schlein aiuta soltanto Giorgia Meloni
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20 Giugno 2023La direzione dem
di Roberto Gressi
Movimentismo e populismo. Si può discutere a lungo sulle differenze e le similitudini tra i due «ismo» della politica italiana. Ma una cosa pare accomunarli. Si ripropongono, in quella che con una certa indeterminatezza si definisce sinistra, a tempo scaduto. Li ha da tempo sfumati Giorgia Meloni, sulla via del governo. Ci ha messo un po’ di più Matteo Salvini, ma anche lui ha capito che era tempo di mandare in soffitta le stagioni dei forconi, cavalcate ancora ai tempi del primo governo Conte. Anche se le ricadute a sprazzi si ripresentano. Si capisce di più che non possano uscire dal solco del populismo i Cinque Stelle, che sono obbligati a farne un certificato di esistenza in vita, dopo l’esperienza per lo meno contraddittoria alla guida del Paese. Più difficile è invece leggere la linea movimentista, con venature di populismo, della segretaria del Pd, Elly Schlein. Non solo perché il mondo dei dem è tradizionalmente legato alla difesa delle istituzioni, a un europeismo convinto, alle alleanze internazionali, anche se tutto questo ha fatto spesso da scudo a un governismo esasperato. Non soltanto perché la svolta radicale, seguita alle primarie, quando sembrava che bastasse buttare alle ortiche un partito ingessato e dominato dalle correnti per riconquistare un’Italia che non aspettava altro, si è dimostrata un’illusione, almeno a guardare alle prime prove. Ma anche perché non aiuta un linguaggio involuto, che si rivolge alle masse ma fatica a non apparire elitario.
U n atteggiamento inoltre accompagnato da una tattica del doppiopetto, per cui si stenta a capire, tanto per fare pochi esempi, se si è a favore o no ai termovalorizzatori, a una robusta rivisitazione dell’abuso d’ufficio, osteggiato dai sindaci dem. O addirittura se in qualche modo non si stia rimettendo in discussione il sostegno all’Ucraina, che si batte contro l’invasione di Putin, tanto da dover specificare che la distanza che sulla guerra la separa da Giuseppe Conte è «siderale».
Quando Elly Schlein, a fronte delle difficoltà, dice che non intende farsi ingabbiare e che vuole dare voce a chi l’ha portata ai vertici del partito, ha senz’altro le sue ragioni. E c’è della verità nel non voler riconsegnare il Pd nelle mani di pochi «saggi», per la maggior parte uomini. Meno chiaro è capire se corrisponda al suo pensiero quello che trapela dai suoi collaboratori più fidati, che guardano alle defezioni sempre più numerose dell’area moderata quasi con soddisfazione, convinti che una volta eliminata ogni zavorra sarà tutto più facile.
Per certi versi sembra di essere tornati alle contrapposizioni del secolo scorso tra massimalisti e riformisti, con i primi pericolosi avventurieri e i secondi rinnegati e servi del potere. Se così fosse quella del Pd, inteso come il partito a vocazione maggioritaria delle origini, capace di coagulare intorno a sé su un percorso comune strati diversi della società, sarebbe probabilmente una storia finita. Ciò non toglie che potrebbe puntare a riportare alle urne delusi e scontenti, magari anche con qualche successo, ma sarebbe comunque un’altra cosa, intendiamoci, legittima. Se poi questo percorso dovesse rivelarsi minoritario o addirittura subalterno, soltanto il tempo potrà dirlo, con l’avvertenza però che il tempo non è molto. Alle elezioni europee manca appena un anno e tra i dem si comincia a chiedersi, chi con timore, chi con speranza, se sarà questa segretaria ad affrontare la sfida. La stessa proposta di ieri, di «un’estate militante», mentre gli italiani chiedono di essere lasciati in pace, almeno durante le ferie, sa un po’ di difensivo e di già visto.
C’è poi il tema delle primarie, croce e delizia del Partito democratico. Rinunciarci è praticamente impossibile, significherebbe chiudere una straordinaria porta di dialogo con l’elettorato e riconsegnarsi al gioco delle correnti, se non dei capi bastone. Ma un problema c’è. E non solo perché rendono il Pd un partito scalabile, soprattutto adesso che votano ancora tante persone, ma molte di meno degli esordi. Ma anche perché servono parecchi consensi per essere eletti, ma basta una maggioranza interna, silenziosa e organizzata, per essere cacciati. È poi un gioco che espone i dem ad un esasperante tira e molla: tutti insieme, anche per finta, finché il voto delle primarie è caldo, tanti pronti al ribaltone subito dopo. E quando il ribaltone non fosse possibile, c’è sempre la scappatoia delle scissioni, a lungo usate e abusate, anche quando si sono dimostrate fallimentari.
Schlein ieri in Direzione ha chiesto alla minoranza di venire allo scoperto, che tanto lei è lì per restarci. Lorenzo Guerini, per tutti, l’ha giudicata inutilmente polemica. Ha tutta l’aria di una prima puntata.