Il senso dell’operazione che Contini realizza nel 1973 nel Meridiano dedicato a Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi, è chiaro e immediatamente enunciato: si tratta di rivendicare il valore letterario degli scritti longhiani, di inserirli senza esitazioni nel campo della letteratura. E cita subito Emilio Cecchi: è singolare che «le virtù di uno stile come questo … non abbiano ancora preciso rilievo nelle storie della nostra letteratura … si dice per dire come, in certi settori, siano tenaci la superstizione dei generi letterari, il conformismo accademico, e altri pregiudizi». Ci possiamo chiedere oggi, a distanza di decenni, quanto permane di conformismo accademico, di chiusura entro i recinti dei generi e delle corporazioni. Ma forse vale più la pena di confrontarci da vicino sul modo in cui, nelle pagine longhiane, parole e immagini interagiscono, in un dialogo creativo, in uno stile e in un linguaggio inconfondibili, che forse oggi siamo più in grado di apprezzare.
È una lunga vicenda quella che Contini ci presenta, in cui egli sottolinea il permanere di una sostanziale continuità. È vero che lo stesso Longhi coltiva l’autobiografia, ricostruisce una vicenda personale del tutto incarnata nei suoi pellegrinaggi critici, nei suoi incontri ravvicinati con gli oggetti della sua passione e dei suoi studi. Il critico, «da buon marinaio della storia dell’arte», è «sempre pronto a nuovi imbarchi (un artista a ogni porto)» scrive, facendo affiorare la componente erotica di quegli incontri con le opere d’arte amate. Chi scrive, direi, si espone, con forza e grande fiducia in sé stesso, nei suoi percorsi, nelle sue scoperte, nelle sue polemiche, nella sua sferzante ironia. Mi colpisce la componente teatrale della sua scrittura. Contini ha ricordato la sua straordinaria abilità mimetica e le «confidenze rese agli amici sul rimpianto di non esser diventato attore». Credo che questo elemento sia nel cuore del modo in cui Longhi riscrive, narra, mette in scena le immagini e ce le vuole far vedere, così come le sente, le capisce, le rivive lui. Ci guida per i percorsi cittadini, così come per i percorsi delle pitture. L’incontro (a volte lo scontro) con le immagini è un incontro con persone vive. «Quando, nel tardo Trecento, dal ballatoio gotico del duomo di Mülhausen vediamo spenzolarsi, fuori piano, Carlo IV e la consorte, e metter la mano al petto per ringraziare i terrazzani dell’applauso, non restiamo convinti da quel gesto pericoloso; semmai preoccupati. Vien voglia di ammonire che, quando si è scolpiti, non ci si espone a quel modo. Ecco dove si veniva, per avere lasciato correre in libertà troppe lucertole, troppi camaleonti, su per le ghimberghe delle cattedrali», leggiamo ad esempio in Arte italiana e arte tedesca, dove il dialogo puntuale con le sculture diventa l’esempio negativo di un intero stile.
La descrizione delle immagini (ma il termine è del tutto inadeguato) si salda con il coinvolgimento di diversi sensi, forse anche per la suggestione del «visibile parlare» di quel Dante che è presente specie là dove le immagini sembrano animarsi e coinvolgere sia l’udito che l’odorato. Ne vediamo un esempio in Stefano fiorentino, a proposito della Crocifissione del vecchio capitolo di San Francesco: «come se una grave, dolce potenza ronzante, come un rombo lontano, dal pianto degli angeli alla bocca di San Giovanni, rombasse attorno al corpo di Cristo, miracolo di elezione e di verità»: siamo convocati lì davanti, e lo sguardo attento, sempre più consapevole, che si posa sulle immagini si arricchisce del concerto dei suoni.
Longhi guida il nostro sguardo su di un particolare e nello stesso tempo lo mette in scena, convoca intorno a quel punto una miriade di associazioni, un proliferare di metafore e di rinvii che incatena la nostra attenzione e insieme ci coinvolge nella frequentazione del cosmo rievocato. La sua straordinaria memoria figurativa gli permette di giocare con gli accostamenti del passato e del futuro, mentre il gioco delle metafore si fa sempre più libero e avvincente.
È interessante vedere come Longhi sia sensibile alla presenza delle scritte nell’interno delle immagini, ma come le riconduca alla loro qualità visiva, al loro valore estetico. A proposito dei versi presenti nei rovesci dei ritratti dei Duchi di Urbino scrive: «una transenna marmorea inscritta di elogi eloquenti, e coronata di un fregio di sottile artificio». Mi viene da rimproverargli di non leggere le scritte, di non fermarsi su quelle eleganti strofe saffiche a minore, che interagiscono con i ritratti. Ma capisco che questo sarebbe stato troppo per lui: la poesia, perfino la visualizzazione della scrittura, potevano entrare nel gioco di associazioni creato intorno alle immagini, ma restavano pur sempre una realtà “altra”.
Roberto Longhi
Da Cimabue a Morandi
A cura di C. Acidini e
e M. C. Bandera
introduzione di Lina Bolzoni
Einaudi, pagg. 1.200, € 100