Sotto il trionfante Concilio degli Dei di Giovanni Lanfranco, la grande gabbia è una presenza aliena. Al suo interno, dietro le maglie di ferro rugginoso, si scorgono oggetti insieme quotidiani e indefinibili: arredi infantili, vasi, sfere di vetro colorato, ossa, specchi, la rete di un letto, un grande ragno di bronzo. È un diorama da osservare con minuzia e da cui emana una strana, contagiosa inquietudine. Un palcoscenico su cui va in scena, scandito da traumi e rimozioni, il dramma eterno della formazione dell’Io e dove le memorie psichiche e carnali si manifestano sotto forma di enigmi disturbanti.
Passage Dangereux (1997), una delle opere più emblematiche di Louise Bourgeois, è la presenza più intensa nella mostra in corso alla Galleria Borghese, non nu0va a proporre un dialogo tra opere moderne e la sua superlativa collezione di arte rinascimentale e barocca. Sotto lo sguardo sornione dei magnifici ritratti di Scipione Borghese scolpiti da Bernini, si compone di fronte ai nostri occhi il rituale di una difficile iniziazione alla vita adulta. A partire dalla “scena primaria” – l’unione carnale dei genitori e la sua traumatica rivelazione – Bourgeois guida lo spettatore nel «romanzo familiare», proprio e di tutti, evocandone i momenti inevitabili e angoscianti: l’autoriconoscimento (gli specchi, in cui lo spettatore finisce per riflettersi), il rapporto con le figure parentali (il ragno, ricorrente simbolo materno), il confronto con la vulnerabilità e il senso di colpa, con la paura dell’abbandono e della punizione (la casa come rifugio e come trappola, la sedia elettrica). Nella struttura si compongono così le tappe di un «passaggio periglioso» attraverso le misteriose concrezioni dell’inconscio; il soggetto, sembra suggerire l’artista, è un amalgama instabile di esperienze vissute e immaginate, la sua “realtà” uno stato di perpetua ambivalenza.
Nata a Parigi nel 1911, residente a New York dal 1938 sino alla sua scomparsa nel 2010, Louise Bourgeois è stata protagonista di uno dei casi più clamorosi di “scoperta” tardiva, avvenuta con la retrospettiva che il MoMA di New York le dedicò nel 1982. Diventata presto oggetto prediletto degli studi femministi sull’arte, la sua opera si presta oggi a letture più diversificate, sulla scia delle stesse dichiarazioni dell’artista, ripetutamente sottrattasi a letture orientate in modo esclusivo al “genere” o alla psicobiografia. La sua poetica ha come riferimenti costanti la psicoanalisi freudiana e le esperienze surrealiste, cui tuttavia Bourgeois imprime uno scarto originale e decisivo: se il surrealismo aveva reso la donna l’oggetto privilegiato delle proprie esplorazioni, essa diviene ora soggetto attivo e autonomo, fulcro di un’ardita, originale esplorazione delle sfere del desiderio e della sessualità in cui si agita il fantasma dell’informe, della commistione incontrollabile, non gerarchica, tra generi, materie, forme.
Si trovano tracce di questa disposizione in tutte le opere della mostra, in particolare in Janus Fleuri (1968), a ragione esposto nella Sala dell’Ermafrodito, e in tre altre variazioni della stessa serie allestite nell’Uccelliera: come Giano, la divinità bifronte del passato e del futuro, la piccola scultura di bronzo, sospesa a un sottile cavo metallico, si compone delle forme contrapposte di due falli, fusi al centro in modo da evocare i genitali femminili in una complessa allusione alla doppia natura dell’Io e al rapporto tra tempo e memoria.
Pochi artisti sono riusciti come Louise Bourgeois a dare forma memorabile alla straordinaria potenza metamorfica dell’inconscio. Nella sala di Apollo e Dafne, a poca distanza dal vertiginoso capolavoro di Bernini, una vetrina contiene una forma di marmo bianco, Topiary (2005), un piccolo idolo composto da gambe e busto femminili che si trasformano in alto in una escrescenza insieme fallica e vegetale. È un ibrido inconcepibile e affascinante, in cui la metamorfosi narrata da Ovidio diviene una fioritura sessuale e i generi si combinano in una forma nuova e inattesa, un’allegoria di fertilità e autotrasformazione.
Se l’arte di Louise Bourgeois richiama in ogni sua piega la possibilità di riannodare la trama frammentaria dell’esistenza, di fare i conti con la perdita e il dolore, le sue opere sono strumenti affilati, capaci non solo di squarciare la rumorosa oscurità che avvolge i meccanismi della psiche ma di attingere alla sua sconcertante potenza d’immaginazione, all’inquieta, viscerale pulsazione corporea che la abita.
Louise Bourgeois
L’inconscio della memoria
A cura di Philip Larratt-Smith, Geraldine Leardi, Cloé Perrone
Roma, Galleria Borghese
Fino al 15 settembre
Catalogo Marsilio,
pagg. 256, € 55