L’interazione umana con l’ambiente, tra biologia, filosofia e matematica
3 Dicembre 2022Strada facendo
3 Dicembre 2022di Francesco Rigatelli
Il grande storico dell’antichità Luciano Canfora, a Torino per il Festival del Classico fino a domani, affronta tutti gli aspetti del lavoro, tema centrale della quinta edizione. In una saletta del Circolo dei lettori, con i soliti occhiali tondi e i capelli fluttuanti come nuvole, accetta di ripercorrere quel filo che dal mondo greco arriva fino alla società capitalistica e che pochi come lui sanno raggomitolare per dare un senso al labirinto delle vicende umane.
Professore, tra i tanti problemi attuali, dall’ambiente alla guerra, che posto ha il lavoro?
«In realtà è alla base di tutto, soprattutto nelle sue forme patologiche. Penso all’industrialismo cinese, che danneggia il clima, o alla guerra in Ucraina, dove arrivano armi da molti Paesi compresa l’Italia. Un cinismo sovrano tipico del capitalismo».
Al Festival ha difeso il reddito di cittadinanza, è così?
«Il presidente della Confindustria di Treviso anni fa mi spiegò che si tratta di una disputa inutile, perché è l’unica soluzione per evitare una bomba sociale. Non a caso la Germania prevede qualcosa di simile. Già Paolo Sylos Labini sosteneva che nell’era tecnologica la classe operaia, che secondo Marx doveva diventare maggioranza, viene espulsa dalle aziende e necessita di supporto».
Dove nota le maggiori diseguaglianze?
«Oltre a quelle tra Nord e Sud del mondo, che si riproducono anche in Italia, a danno essenzialmente di migranti ridotti in schiavitù, c’è la disuguaglianza legalizzata del lavoro precario. Con l’aggravante della situazione delle donne, trattate come cittadini di serie B».
C’è qualcosa che il mondo classico può insegnare a riguardo?
«Il mondo classico o l’uomo classico non esistono, sono pure finzioni letterarie. Ad Atene c’era una grande differenza tra élite e popolo, anche nella condizione femminile. A Sparta invece, che per Hitler era lo stato razziale perfetto, le donne avevano un maggiore peso politico. Così come nella tarda Repubblica romana. Poi si potrebbe ricordare la figura di Boudicca, che regnava nell’Inghilterra orientale prima di Cristo, oppure l’influenza delle donne germaniche sui mariti guerrieri».
La questione di genere esisteva già allora?
«Anche su questo contavano molto le classi sociali. Non è una novità che far parte dell’élite sia più piacevole. Per esempio nelle classi elevate della Grecia antica c’era grande apertura e disinvoltura sull’omosessualità, ma quando Aristofane doveva mettere in piazza una commedia se ne prendeva gioco volgarmente».
Al Festival ha parlato anche del Pd lontano dalla realtà?
«I suoi dirigenti vivono in centro, lontano dai problemi del lavoro e dialogano solo con i benestanti. Servirebbe una mutazione antropologica dopo troppi anni al governo».
Stefano Bonaccini come presidente dell’Emilia-Romagna o Elly Schlein come sua vice non si confrontano con i problemi reali?
«Possono essere persone degnissime, ma ricordo per esempio la figura del sindaco bolognese Giuseppe Dozza, che veniva votato anche dai missini. L’amministratore splendido funziona a livello locale, tanto che Palmiro Togliatti diceva “gli emiliani lasciamoli lì”. Se trapiantati nell’agone politico nazionale non funzionano, perché si tratta di governare un Paese, la sua economia e gestire rapporti internazionali».
Ma non si parla sempre della necessità di corpi intermedi per formare la classe dirigente?
«Sì, ma non credo al partito dei sindaci che prende in mano l’Italia. Giuseppe Di Vittorio negli Anni 50 fece il Piano del lavoro per la Cgil contrapponendo una diversa visione a quella della Dc, ma non aveva nulla a che fare con l’amministrazione locale».
E allora dove va cercato il segretario del Pd?
«Demostene tentò di convincere a lungo gli ateniesi a contrastare i macedoni prima che fosse troppo tardi. Alla fine gli chiesero: cosa dovremmo fare? E lui: ormai è tardi, cosa volete che vi dica? Quando si arriva a un punto di non ritorno è inutile cercare una ricetta che non c’è. E per il Pd temo sia troppo tardi».
Addirittura?
«Ho seguito lo sviluppo della sinistra italiana da partito di classe con orientamenti granitici e referenti sociali sicuri alla fase che Augusto Del Noce definì del partito radicale di massa, cioè basato sui diritti come divorzio e aborto, temi tipici del pannellismo insufficienti per fare un partito. Nel tempo si è persa anche quella spinta nel nome del governismo e ora si trascina una crisi di identità. Un peccato perché chi ancora vota Pd meriterebbe di meglio».
Lei in tutto questo dove si pone?
«Per me il meccanismo democratico è stato ridimensionato, come sosteneva Norberto Bobbio, al calcolo dei voti. La democrazia invece è il potere popolare. Ai tempi di Giuseppe Mazzini l’Oxford dictionary la definiva “social revolution”. In Atene per gli oligarchi i democratici erano addirittura delle canaglie. La democrazia in realtà è il punto di incontro tra le classi sociali e, visto che siamo a Torino, come spiegò Luciano Gallino non è che la lotta di classe sia scomparsa, semplicemente l’hanno vinta i padroni. Almeno per ora, poi vedremo. Non dimentichiamo che in Italia quasi il 40 per cento degli elettori non vota, dunque mi pare inutile dire se io sto un po’ più a sinistra di qua o di là e cosa cambierei. Si tratta di fenomeni storici al capolinea».
Ma lei si definirebbe più di sinistra, postcomunista, marxista o cosa?
«Comunista senza post. Un ideale infinito che risale a prima di Platone. Perfino Alcide De Gasperi al Teatro Brancaccio di Roma nel 1944 definì il comunismo come vero cattolicismo raggiungibile solo con una forte moralità. Così pure Amintore Fanfani nel programma economico della Dc del 1947 scrisse che la prova del fatto che il cristianesimo non fosse ancora morto stava nell’avversione diffusa verso il capitalismo».
Nella sua visione il Pd dovrebbe ritrovare le radici di sinistra, ma non è legittimo volerlo invece più liberale?
«Liberale sarebbe già un complimento, mentre ora vedo l’indistinto. Il Pd ha rinunciato alla sinistra per un centro senza scopo e questo ha lasciato spazio ad occupazioni primitive come quella del M5S».
Conte è primitivo?
«Riempie un vuoto. Quando gli hanno chiesto il suo riferimento culturale, non sapendo cosa dire, ha risposto: il pensiero sociale della Chiesa. Solo che a declamare oggi il Rerum novarum di Leone XIII si verrebbe scambiati per brigatisti».
Anche il Papa viene considerato di sinistra. È così?
«Certamente viene da un mondo che ha sperimentato l’egemonia statunitense e questo determina dei comportamenti, per esempio sull’Ucraina. Poi su tanti aspetti mi sembra più tradizionale».
E Meloni di che destra è?
«Intanto è una miracolata da venti mesi di governo Draghi e dalla legge elettorale Rosatellum. Neanche gli dei di Omero facevano regali così sontuosi. Poi la trovo coerente rispetto alla posizione di Giorgio Almirante pro Nato del 1949 e al cattolicesimo conservatore per cui Mussolini fece il concordato».
Nessun pericolo fascista?
«Quello serve solo a Enrico Letta per sentirsi all’opposizione. La politica estera la fa la Nato e la politica economica la Bce. La destra si sfogherà sui migranti, ma lo faceva pure Marco Minniti del Pd. Il fascismo, come diceva Concetto Marchesi, non è mai morto, ha solo varcato l’Atlantico. O come Bertolt Brecht ha scritto nel suo diario: un fascismo americano sarebbe democratico».
Quale classico suggerirebbe di leggere alla premier?
«Il De rerum natura di Lucrezio, che nel terzo libro parla della ferocia della lotta politica e nel quinto dà uno sguardo alla storia umana così grande che chiunque lo legga non può che ridimensionare la propria funzione e i propri obiettivi. Una lettura salutare».