“Suo figlio può essere allontanato, se necessario”.
“Ho capito bene: suo marito la costringe ad avere rapporti con altri uomini?”.
“Le cerco il centro più vicino: lì le spiegheranno come iniziare un percorso di uscita dalla violenza. E no, non è affatto necessario che denunci”.
Nel Paese in cui Giulia Cecchettin è l’ultima vittima di un’infinita scia di sangue (la media è di una donnaammazzata ogni tre giorni), ci sono sedici operatrici che, 24 ore su 24, rispondono al telefono: “Pronto, 1522. Come posso aiutarla?”. Il 1522 è il numero unico antiviolenza e stalking, un servizio pubblico promosso dal Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio e gestito, dal 2020, da Differenza Donna. La centrale operativa è a Roma, ma da qualsiasi parte d’Italia la si può chiamare gratuitamente per chiedere aiuto, ottenere informazioni, conoscere il centro più vicino, o anche solo essere ascoltate. In totale anonimato: la chiamata non viene tracciata né registrata. Solo nel caso estremo di pericolo di vita imminente, per la necessità di contattare subito le forze dell’ordine, vengono chiesti un nome e un indirizzo, ovviamente se la vittima è d’accordo. Esiste anche una chat, cui si accede dal sito (1522.eu) che spesso viene utilizzata dall’estero, magari da parenti preoccupati per l’incolumità di proprie familiari residenti nel nostro Paese.
“Le donne devono sapere che possono parlare senza che dall’altra parte si formuli un qualsivoglia giudizio”. Arianna Gentili è la responsabile nazionale del 1522, fresca di nomina dopo una vita passata nei centri antiviolenza del Lazio. Ci guida lei per le stanze di un ufficio del quartiere romano di Prati, al cui interno lavorano solo donne, compresa la presidente di Differenza Donna, Elisa Ercoli, un’associazione che conta centinaia di iscritte.
C’è un primo dato che lascia esterrefatti: “Riceviamo in media 250 telefonate al giorno”. Un numero che varia anche in base al clamore mediatico di alcune notizie (subito dopo l’omicidio di Giulia Tramontano hanno chiamato molte più ragazze giovani) o grazie alla “pubblicità” indiretta (un programma tv, un’iniziativa o un evento che ricordino il numero verde), a testimonianza dell’assunto che più se ne parla, meglio è. Non tutte le 250 utenti sono vittime, certo: c’è una percentuale di parenti, amici o conoscenti preoccupati per una donna, ci sono richieste non esplicite (il classico “non per me, per un’amica”) e poi ci sono anche le chiamate che nascono in contesti di disagio psico-economico non direttamente riconducibili a situazioni di violenza. “Una donna anziana sola, magari disabile, vive come una violenza il sentirsi abbandonata dalla famiglia – spiega Gentili –, ma tecnicamente non è così. In quel caso non possiamo intervenire, ma si tratta senz’altro di un dato sociale di cui tener conto. Anche perché è un fenomeno che riguarda pochissimo gli uomini, abituati a essere accuditi”. Ritorniamo all’altro vecchio assunto per cui la violenza è un problema culturale: “Siamo imbevuti di una cultura patriarcale da cui neanche noi donne, spesso, riusciamo a prendere le distanze. La violenza non è una malattia – prosegue la responsabile del 1522 –: molte vittime tentennano, prendono tempo, perché sostengono che l’uomo maltrattante sia ‘normale’ negli altri contesti, con la propria famiglia, sul lavoro… Ma se uno è malato, è malato sempre”.
Una delle accuse che si muovono alle donne, nell’eterno riproporsi della vittimizzazione secondaria, è che sono scappate, o hanno denunciato, a distanza di troppo tempo. Se era così grave perché non te ne sei andata subito… Perché la violenza fisica non è mai improvvisa, arriva dopo mesi – a volte, anni – di condizionamento psicologico, magari all’inizio mascherato da grande amore. Mi ama e mi vuole tutta per sé, per questo preferisce che non esca con le mie amiche. Mi accompagna e mi viene a prendere perché non vuole che mi stanchi. Mi chiede di rimanere a casa dal lavoro perché tanto pensa lui a me. È un percorso progressivo di annientamento della persona, sminuita, umiliata, annichilita. E così, quando arriva il primo schiaffo, la vittima pensa di essersela cercata, in fondo. “Non solo. La società mette sulle spalle delle donne il peso della responsabilità familiare – prosegue Gentili –: bisogna tenere insieme tutto, a partire dalla relazione col proprio compagno. All’inizio, si modulano i propri comportamenti limando la libertà individuale in cose che sembrano piccole: un abito, un aperitivo, un’abitudine quotidiana. Se non lo faccio, lui sarà più contento. Si finisce con il rinunciare a tutto, continuando a provare ad ammansire l’uomo. Che magari, appunto, fuori di casa è persona rispettata e gentile: quindi è per colpa mia che diventa violento… Per questo ci vuole un po’ a decidere di mettere un punto. Anche se stiamo notando, dal Covid, che i tempi si sono accorciati, sia quello dell’escalation della violenza sia quello di reazione delle donne, in particolare le più giovani”. Il che forse fa ben sperare.
Non esiste un identikit dell’uomo maltrattante, la violenza non dipende dall’estrazione sociale o economica. Ci sono vittime di contadini e vittime di stimati professionisti.
Le operatrici rispondono da una stanza riservata: cinque postazioni, cuffie e computer. Vengono tutte da esperienze sul campo, nei centri disseminati sul territorio. Parlano più lingue, ma se chiama una donna la cui lingua è sconosciuta, viene fissato un appuntamento con una mediatrice culturale. Esiste una sorta di protocollo nella risposta, anzi una “metodologia dell’accoglienza”. La prima regola è l’ascolto. La seconda, l’empatia. Come dicevamo, non si chiede il nome; al massimo, l’età. Perché accade spesso che a chiamare non siano soltanto le ragazze. Per esempio, mentre siamo lì telefona una donna preoccupata per sé e per il marito. Naturalmente non ascoltiamo la telefonata, ma dalle risposte dell’operatrice intuiamo il contesto: devono essere persone di una certa età, vessate e picchiate dal proprio figlio adulto. “Signora, se lo ritenete, avete il diritto di allontanarlo da casa”. “Le madri fanno ancora più fatica a uscire da situazioni di violenza da parte dei figli, perché significa accettare che colui cui hai dato la vita ti mette poi le mani addosso, o ti usa violenza economica”. Un altro male di cui si parla poco. “La violenza economica è uno dei tanti aspetti della violenza, e non si tratta solo di conti correnti comuni e controllati dall’uomo – ha spiegato in un recente appuntamento alla Sapienza l’economista Marcella Corsi –. Pensiamo a cosa accade alle donne che, dopo essere state costrette a rinunciare al lavoro, si ritrovano vedove e senza neanche la pensione minima”. Si parla dunque di diritti negati, non solo di incolumità fisica. Per questo è necessario cambiare il paradigma culturale. Delle vittime e dei carnefici. Per questo sarebbe necessario ripartire dalle scuole, per insegnare ai cittadini di domani il rispetto per l’altro. Il sogno è quello di una società dove non esistano i centri antiviolenza.
“Signora, è capitato già altre volte? Si è rivolta a qualcuno? Ah, e le hanno detto di tornare a casa e provare a sistemare le cose”. C’è ancora un enorme problema che riguarda la formazione delle forze dell’ordine e dei magistrati. “Molto è stato fatto negli ultimi anni – ci racconta Cristina Ercoli, operatrice e componente del Direttivo di Differenza Donna – , ma non è ancora sufficiente. Ci sono questure, caserme e Procure con personale formato e dedicato. Ma poi ci sono paesini piccoli e sperduti dove c’è un’unica stazione dei carabinieri e magari il maresciallo conosce marito e moglie… Andrebbe fatta una formazione continua e capillare degli operatori”.
E non è detto che la denuncia penale sia la soluzione, anzi. Ci sono gli strumenti della giustizia civile, o semplicemente l’uscita graduale dalla violenza.
Ma cosa accade dopo una chiamata al 1522? “Consigliamo alle donne il percorso da intraprendere, forniamo indirizzi, numeri e orari di apertura dei centri sui territori. Spieghiamo loro cosa possono fare e quali sono i tempi. Non c’è mai una soluzione immediata, a meno che non si tratti di un intervento emergenziale. Ma poi è la vittima che deve decidere. Quando si chiude il telefono, non sappiamo cos’accadrà”. Può essere frustrante, certo, e bisogna schermarsi dal dolore, motivo per cui le operatrici si confrontano spesso e in gruppo. Ma è un servizio necessario. Le donne devono sapere che c’è una rete che le assiste, le prende in carico e le accompagna fino all’autonomia, psicologica, abitativa, economica. Un lavoro enorme. Nato dalla convinzione che nessuna si salva da sola.