SCENARI
Il confine “maledetto” tra Stati Uniti e Messico è teatro di episodi storici sanguinari, ma anche dei capolavori di McCarthy e Bolaño
di Fernando Gentilini
Dopo l’estate del 1849, finita la guerra messico- statunitense, un’orda di cacciatori di scalpi, la banda Glanton, iniziò a seminare morte e disperazione lungo il confine tra i due paesi, dove i deserti di California, Arizona, New Mexico, Chihuahua e Sonora formano un’unica massa indistinta. La comandava il giudice Holden, un incrocio tra Achab e Kurtz. Uno sterminatore di Apache e Comanche, collezionista di stupri e torture, ma soprattutto un filosofo del deserto, uno secondo il quale tutto l’orrore che quella corte di rinnegati lasciava dietro di sé proveniva dalle viscere della terra ed era quindi fuori dalla portata del giudizio degli uomini.
Quando nel 1985 Cormac McCarthy raccontò in Meridiano di sangue questa storia, i critici dissero che aveva scritto il “western definitivo”, un romanzo cioè destinato ad archiviare per sempre l’epopea della frontiera. Solo che poi, negli anni seguenti, lui continuò ad ambientare i suoi libri in quegli stessi deserti, meta di innumerevoli viaggi ed esplorazioni dai suoi rifugi di El Paso e Santa Fe. Quasi a voler dimostrare che i miti, quelli veri, non hanno mai fine, e che la storia della frontiera, o almeno della sua parte più oscura, aveva ancora bisogno di essere raccontata. L’epopea americana è da sempre sinonimo di Far West, nel senso che fu con la conquista delle terre indiane fino al Pacifico che poté compiersi il destino manifesto della nazione. E invece McCarthy ci ricorda che c’è stata anche un’epopea del South-West, altrettanto cruenta, cioè la conquista dei territori messicani; e che la California, l’Utah e il Nevada, nonché ampie porzioni di Colorado, New Mexico, Arizona e Wyoming, vennero incorporati negli Stati Uniti d’America neanche due secoli fa, dopo la guerra vittoriosa contro il Messico e la pace di Guadalupe Hidalgo del 1848.
Tra i due paesi corre oggi un confine di tremila chilometri, dal Pacifico all’Atlantico, a sud del quale c’è una delle aree più instabili del pianeta. Non soltanto per i milioni di latinos pronti a varcare il muro, a rischio della vita, ma per le bande di narcos e trafficanti di esseri umani che l’hanno eletta a santuario dei propri crimini. Scorre ancora parecchio sangue nei deserti del Chihuahua, del Sonora e della Bassa California, come al tempo della banda Glanton. E allora forse il giudice Holden non si sbagliava quando diceva che erano luoghi predestinati, senza salvezza. Dove l’Altissimo doveva vedersela continuamente con il Maligno.
Cormac McCarthy pratica le Scritture, come Melville e Faulkner, ed è ipnotizzato dal mistero del Male. Gli interessa capire da dove viene, come faccia a corrompere gli esseri umani, perché scelga di infestare certi luoghi e non altri. Mc-Carthy insomma sceglie sempre di scandagliare l’abisso, di addentrarsi nell’ombra oltre il buio. Ed è per questo che viene accostato a un autore assai diverso da lui, messicano di adozione, che guarda caso credecome lui che i deserti nordoccidentali del Messico, specialmente il Sonora, siano il punto in cui erompe tutta la violenza sotterranea del mondo.
Roberto Bolaño non è per niente biblico, né mitologico, e guarda alle cose con ironia e disincanto. Ne
I
detective selvaggi i due protagonisti Ulises Lima e Arturo Belano partono per il Sonora sulle tracce della poetessa Cesárea Tinajero, madre dei realvisceralisti, sperando di poterla in qualche modo incontrare. Viaggeranno inseguendo l’illusione ipnotica della poesia, senza badare ai segni lungo il cammino. E solo alla fine, quando ormai è troppo tardi, si accorgeranno di tutto il Male che quel luogo porta dentro di sé. Ma la violenza esploderà implacabile soltanto in 2666 , dove fin dall’esergo il Sonora tornerà a essere l’“oasi di orrore” che è sempre stato. Ai suoi margini Bolaño inventa Santa Teresa, versione letteraria di Ciudad Juárez, per ambientarci le centinaia di femminicidi che hanno sconvolto il Chihuahua dal 1993. Delitti insensati, almeno in apparenza. Che a ben guardare però portavano tutti il marchio invisibile di qualcosa di già accaduto, di uno sterminio iniziato nella preistoria. L’ennesima prova – avrebbe pensato il giudice Holden – che all’Angelo della Morte, da queste parti, piace colpire ciclicamente, e sempre lungo gli stessi sentieri.
Forse per questo nella Santa Teresa di Bolaño, cioè Ciudad Juárez, la violenza quotidiana non fa neanche più notizia. Negli anni Novanta ci si era illusi che il Nafta (l’accordo nordamericano per il libero scambio) potesse portarvi un po’ di benessere, e che lemaquiladoras , le industrie per l’assemblaggio, potessero dare lavoro ai messicani e scoraggiare l’emigrazione. Invece tutto questo non è successo, e anzi è proseguita inarrestabile la “normalizzazione della barbarie”. Con il risultato che Ciudad Juárez continua a essere prigioniera del proprio destino, come Tijuana, Los Cabos, Hermosillo, Agua Prieta, Chihuahua…
Ecco perché la geopolitica e la demografia, o le logiche più o meno perverse dei muri e dei trattati bilaterali, non riescono a far piena luce sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti. E perché invece ci riescono i libri di McCarthy e Bolaño. In certe pagine è come se la Natura volesse riprendere a sé il futuro, farselo restituire dalla Storia; come se a parlare, invece degli esseri umani, fosse direttamente l’immenso buco nero che è la frontiera. Un buco nero impassibile, che non si cura degli uomini. Capace di inghiottire i colonialismi europei, gli imperialismi americani, e poi di far sparire nel nulla le rivoluzioni, le restaurazioni, le industrializzazioni e le primavere messicane.
Funziona come una calamita questo deserto insaziabile, dal quale è impossibile tenersi a distanza. Lo sanno i messicani che ci abitano, che non riescono ad allontanarsi; lo sanno i messicani in fuga che lo attraversano, i quali rischiano di restarci insabbiati; lo sanno i vecchi gringos che ci si sentono a casa, prigionieri della loro epopea; e lo sanno tutti quelli che ogni tanto devono per forza andare a perdersi nei suoi meandri assieme ai propri fantasmi. Più di tutti però, a non resistere al suo richiamo, sono i viaggiatori letterari del terzo millennio, provenienti da vari paesi del mondo, i quali da qualche tempo, sempre più numerosi, scelgono i sentieri messicani di McCarthy e Bolaño per i loro pellegrinaggi. Chi ha letto i loro libri lo sa che quella tra Messico e Stati Uniti non è una terra di nessuno come le altre. Bisogna viverla come un romanzo, tra esistenza e realtà, cercando soltanto il punto in cui iniziano e finiscono tutte le sue storie.