Un sistema inceppato
In Italia gli iscritti all’educazione terziaria (corsi triennali, magistrali o professionalizzanti) sono il 35,4% della popolazione nella fascia 20-24 anni, poco sotto la media Ue (36,1%, dati Eurostat). I numeri peggiorano drammaticamente se consideriamo la quota di laureati nella fascia 25-34 anni: 29,2%, contro il 42% della media Ue. Non tutti, infatti, finiscono gli studi e chi ci riesce spesso emigra all’estero. Pesano le condizioni difficili dell’università, oltre alle scarse opportunità per i laureati (come spiega il professor De Martin nell’intervista accanto).
A gettare luce sul caro studi è un recente rapporto di Federconsumatori e Unione degli universitari (Udu). Ne emerge un quadro sconfortante. In media, uno studente in sede ha bisogno di 9.300 euro l’anno, un pendolare di 9.800 e un fuorisede di 17.400. Negli ultimi due anni i costi sono aumentati in media di circa 5mila euro, una somma da capogiro.
Come sottolinea il rapporto Federconsumatori, “questo non fa altro che accrescere le disparità tra chi può permettersi di mantenere un figlio fino al livello più alto di istruzione e chi, invece, non può sostenerne i costi”. A fronte dei rincari l’azione del governo rimane timida. Secondo Alessia Polisini (che fa parte dell’esecutivo nazionale Udu) con la nuova legge di Bilancio “ancora una volta si sceglie di sottofinanziare il diritto allo studio in Italia, di non investire strutturalmente in edilizia e residenzialità”.
Borse di studio incerte: missione fallita
Nell’anno accademico 2021/2022 gli idonei alla borsa di studio erano 240.600 (il 13% degli universitari). Il Pnrr stanziava 500 milioni di euro con l’ambizioso obiettivo di portarli a 300mila entro il 2023. Ma la missione è fallita. Nel 2022-2023 sono state coperte solo 250mila borse, appena 10mila in più rispetto all’anno prima. E se si estende lo sguardo ai quattro anni precedenti, il ritmo di crescita è ancora più basso: appena 7.500 nuove borse all’anno. Troppo poco per un Paese che soffre di un cronico deficit di laureati rispetto alle altre grandi nazioni europee e di tassi elevati di abbandono degli studi. Se fra il 2015 e il 2019 “il tasso di abbandono tra il primo e il secondo anno delle lauree triennali era sceso al minimo storico di circa il 12%”, nel 2020, complice la pandemia, è tornato a salire, toccando il 14,5%. L’aumento “è particolarmente evidente tra i diplomati provenienti da istituti professionali”, si legge nel rapporto, dove arriva al 26,8%. Oltretutto, neppure con il Pnrr si è eliminato l’annoso problema di chi è idoneo alla borsa ma non ne può beneficiare per insufficienza di fondi pubblici: quasi 5mila studenti nel 2022-2023, un dato praticamente invariato rispetto all’anno prima. Questa volta si è riusciti a mettere una toppa, finanziando le borse “mancanti” con fondi di emergenza (17,4 milioni) avanzati dal decreto Energia e da altre voci di spesa del Pnrr. Ma il sottofinanziamento strutturale è rimasto.
Secondo il rapporto, le borse restano insufficienti a coprire i costi degli studi. È il caso, in particolare, dei beneficiari che studiano in sede o come pendolari. Per queste due categorie, in media, le spese necessarie a una vita dignitosa da studente superano l’importo della borsa rispettivamente di 5.767 e 4.972 euro, lasciando scoperto il 68% delle spese per gli universitari in sede e il 56% per i pendolari. Per quanto riguarda i fuorisede beneficiari, le borse sono più generose. Resta comunque scoperto il 41% delle spese (assumendo oltretutto che sia garantito un alloggio in residenza studentesca).
Stanza cercasi disperatamente
Solo il 5% degli universitari italiani vive in studentato, contro una media europea del 17% (dati Eurostudent). “L’offerta pubblica di alloggi per studenti non c’è, mentre l’offerta privata è assorbita da turismo e affitti brevi, soprattutto nelle grandi città”, dice al Fatto Luca Scacchi, responsabile docenza universitaria della Flc Cgil. “Così, nell’ultimo decennio, grandi fondi internazionali e nazionali hanno individuato un mercato. Un esempio è Camplus, ormai presente a Roma, Milano, Firenze. Certo, le stanze sono vicine alle università e magari godono di vari servizi, ma i prezzi possono raggiungere facilmente mille euro”. Il Pnrr aveva stanziato 960 milioni per aumentare la copertura dei posti letto per universitari, ma anche qui sta fallendo. Entro fine 2022, il governo avrebbe dovuto realizzarne 7.500, ma non ci è riuscito. Secondo la Commissione europea, infatti, il governo ha assegnato posti letto già esistenti, quindi non conteggiabili nel finanziamento del Pnrr. Oltre al fatto che, secondo gli studenti, gli alloggi avrebbero prezzi eccessivi. L’obiettivo, ora, è di realizzarne 60mila entro il 2026. Il problema è che manca un vero piano di residenzialità pubblica: il governo (Draghi prima e Meloni poi) ha fatto troppo affidamento sulla “collaborazione” dei costruttori privati.
Quali alternative ci sono? Scacchi sottolinea che “in altri Paesi, come la Francia, ci sono contributi agli affitti, ma la soluzione economicamente migliore sarebbe costruire appartamenti pubblici”. D’altronde, il contributo all’affitto non è altro che un sussidio a chi investe nel mattone, come spiegano in un rapporto del 2022 per i Verdi europei gli economisti Daniela Gabor e Sebastian Kohl. Secondo Scacchi “il punto è riportare la residenzialità universitaria nel concetto di diritto universale, non di semplice servizio”. Ma in Italia uno degli ostacoli a una maggiore programmazione pubblica è la “parcellizzazione” del diritto allo studio, come la definisce Federica Laudisa, ricercatrice dell’Ires Piemonte: gli enti per il diritto allo studio sono decine, senza un coordinamento centrale, a differenza di Francia e Germania.
Gli studenti tartassati e i fondi che vanno ai ricchi
Nel 2017 la legge di Bilancio introdusse la no tax area, un esonero totale per gli studenti con Isee più basso. Negli anni la soglia massima è stata alzata a 22mila euro, con un esonero parziale fino a 30mila euro. Ma la situazione relativa alla tassazione resta confusa: non ci sono linee guida nazionali sugli importi standard e le università usano algoritmi e criteri diversi, con una selva di incentivi per meritevoli e disincentivi per fuoricorso o non meritevoli. E c’è un altro paradosso. “Nonostante l’innalzamento della no tax area nel corso degli anni”, spiega Scacchi “a livello nazionale gli introiti delle tasse sono diminuiti di soli 50 milioni”. Com’è possibile? “Perché le singole università hanno aumentato molto le tasse su chi le può pagare. Così hanno colpito anche le famiglie di classe operaia o media che però hanno un Isee sopra la soglia di esenzione totale. C’è poi un altro fattore. Lo Stato ridistribuisce agli atenei i mancati introiti dovuti alla no tax area. Le università nelle aree più ricche del Paese hanno meno studenti in no tax area, ma più studenti in assoluto. Così, paradossalmente, le università delle aree più ricche riescono a riavere dal fondo statale proporzionalmente più soldi rispetto agli atenei di quelle più povere, come Catania o Bari”.
Infine, i fondi del Pnrr, sono una tantum. E la legge di Bilancio 2024 prevede una variazione poco significativa dello stanziamento per il Fondo di finanziamento ordinario dell’università. Il tutto a fronte di un previsto aumento delle spese per inflazione e rinnovi contrattuali. “Per recuperare i fondi”, dice Scacchi “dovranno aumentare le tasse universitarie, ma ciò comprimerà ulteriormente il diritto allo studio”. Che in Italia è ormai una terra straniera.