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23 Giugno 2024Personaggi Paolo Gubinelli per ora all’Accademia delle Arti e del disegno con la mostra «Nel silenzio» e il suo rapporto coi versi: colori e testi poetici esprimono la necessità di una sospensione del linguaggio
di Gaspare Pollizzi
Paolo Gubinelli, artista di fama internazionale che vive e lavora a Firenze, può indicarci cosa significa essere artisti nell’era del disincanto. La mostra Nel Silenzio in questi giorni all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, testimonia l’impegno di un artista che non ha mai abbandonato la funzione intellettuale.
Visto il contesto della mostra, ho chiesto a Gubinelli: Le arti del disegno — Michelangelo intendeva le tre corone della pittura, della scultura e dell’architettura — poggiano sulla matita e sulla carta. Dicci qualcosa delle carte, delle matite e dei colori che ami».
«Il mio pensiero — risponde — si avvicina all’architettura, alla scultura, alla musica, alla poesia: la matita disegna e la lama incide la carta, rende una nuova architettura nello spazio e la fa diventare una scultura. Sono incisioni e piegature dove luce e ombra creano un rapporto di volume tra spazio e percezione visiva. Amo il giallo perché rappresenta la luce: l’opera viene sfumata o acquerellata dal colore su un fondo bianco. Il blu apre l’orizzonte verso un infinito che continua, come una poesia che parla solo del mio pensiero verso l’alto». Antonio Paolucci ha scritto di lui nel 2006: «Non esiste nel panorama dell’arte italiana contemporanea, un pittore che abbia saputo, come Gubinelli, accettare per azzardo e chiudere con successo, il confronto con la poesia».
Gubinelli ha reso concreta materia artistica l’espressione ut pictura poësis (come nella pittura così nella poesia ). «Nel mio linguaggio — spiega — nascono lo spazio, la luce, il segno, il colore, la pittura. Gesti che si uniscono alla parola. Tutto si unisce nel mio pensiero, in una poesia che riesce a parlare nel silenzio». In un passaggio della sua Autopresentazione (1977) Gubinelli ritrova nel nesso struttura-spazio-luce «una ricerca razionale, analitica in cui — dice — tendo a ridurre sempre più i mezzi e i modi operativi in una rigorosa ed esigente meditazione». Ed è questa operazione, che lo pone a tu per tu con il vuoto e l’informe, sulla scia di grandi maestri come Lucio Fontana o Mark Rothko, a condurlo al dialogo inconcluso con la scrittura poetica. Tra pittura e poesia non vi è alcuna relazione meccanica, ma permane in entrambe, e le accomuna, una profonda necessità di rivelare uno stato di sospensione del linguaggio, nello spazio e nel tempo. Dal colore della geometria come «pienezza di poesia» emerge anche la dialettica tra rigore e fantasia, testimoniata dal tratto che si compone nella piega e nello squarcio. Un tratto che, come nei Graffi su carta , si confronta con i manoscritti di Giacomo Leopardi, ritrovando quel mirabile, unico, «fare infinito» che Leopardi ci ha consegnato.
Ne ha offerto un saggio la mostra Segni per Leopardi . L’Opera di Paolo Gubinelli inaugurata a Casa Leopardi il 30 giugno 2016 e prolungata fino al 31 maggio 2018, per volere del conte Vanni e della contessa Olimpia. L’orientamento spazio-temporale verso la quarta dimensione procede informalmente dialogando con la limpida calligrafia leopardiana, tra pieni e vuoti.
Gli chiedo: «Il tuo rapporto con Giacomo Leopardi è stato intenso, soprattutto a partire dai manoscritti. Che cosa ti avvicina a quella straordinaria grafia?». «Ho incontrato Leopardi — ricorda — nel 2016, e tornerò a dialogare con lui per una mostra richiesta dalla Biblioteca Nazionale di Napoli in occasione delle celebrazioni Leopardiane del prossimo giugno. Ho graffiato, inciso, colorato le carte che accompagnano i manoscritti. I suoi manoscritti per me sono una vera opera d’arte».
L’arte di Gubinelli si potrebbe definire nel movimento della piega, nel lavorio sulla piega. Piegatura, ondulazione, ruga, curva, flessione, sinuosità, inclinazione. Nella piega si raccolgono molteplici connessioni: il rapporto tra eventi e predicati e la logica dell’evento. La piega si oppone all’essenza: la piega infinita della materia, multiplo del continuo, che Gubinelli realizza con l’aiuto di collages, graffi e piegature su carta, anche trasparente, acquarelli, incisioni, rilievi su ceramica, ma anche voluminose installazioni e un forte interesse alla dimensione architettonica, come testimonia il suo interagire amicale con Giovanni Michelucci. L’arte delle pieghe, delle implicazioni e dei dispiegamenti incide sulla differenza tra pieghe esogene ed endogene, riduce la distanza tra materia inorganica e vivente. La piega si presenta come un legame primitivo non localizzabile, che vede nella materia strutture, figure e tessiture.
Si potrebbe parlare di tendenze «neobarocche», ricordando Paul Klee o Simon Hantaï, e tante espressioni del minimalismo. E come in Richard Serra si potrebbe ritrovare in Gubinelli una pratica analitica, impersonale, un sistema autonomo, basato su alcune unità linguistiche elementari, costanti, prive di significati denotativi e connotativi, nel segno dell’economia formale, della semplicità e del rigore. Ma a differenza di Serra, Gubinelli non espelle dalla sua sintassi i rimandi metaforici o simbolici, che costituiscono anzi la sua cifra, nell’incontro con la dimensione poetica. Gubinelli sosta nel passaggio dal moderno al tardo moderno, in una pratica di ripiegamento e di dispiegamento mimetico che fa intendere la dinamica profonda di ricorrenze e di distanze. Lavora come un artigiano delle pieghe, come un fornaio che impasta la farina, si muove sul foglio di carta come la vespa che Paul Verlaine chiama ebbra nel suo Se la speranza brilla come un filo . Oppure come la magica mano di Saul Steinberg e la sua matita infinita, raccontata da Italo Calvino in Una nave, una penna, una linea (1988).