Sapremo tra pochi giorni se Emmanuel Macron sarà ricordato come l’uomo che evitò in extremis la presa della Bastiglia o il titolare di una nuova Waterloo, la Waterloo dei moderati. La sfida delle legislative francesi, visti gli esiti del primo turno, ricorda da vicino altri azzardi compiuti dalle classi dirigenti d’Occidente nell’età del populismo, molti dei quali finiti male. Perse David Cameron quando pensò di incardinare l’adesione di Londra all’Europa con un referendum, e invece portò la Gran Bretagna fuori dall’Unione. Perse Matteo Renzi, quando credette di consolidare il suo potere con una riforma costituzionale a tutto campo, e invece aprì la strada ai caotici governi M5S. Persero i vip dei Repubblicani americani che nel 2016 si accodarono a Donald Trump convinti di poterlo gestire e pochi mesi dopo furono brutalmente scaricati. Macron appartiene senza dubbio a questa genìa di condottieri del rischio.
Oggi tutte le sue speranze sono appese alla capacità di costruire un blocco contro i candidati di Marine Le Pen in ogni singola circoscrizione elettorale.
Sui 577 seggi in palio, al primo turno ne sono stati assegnati poco più del tredici per cento: 39 al Rassemblement National, 32 al Nuovo Fronte Popolare della sinistra, due al partito del presidente Ensemble, uno ai Repubblicani (la destra moderata di Eric Ciotti). La gara, dunque, è numericamente molto aperta e Macron spera nella solidità del barrage anti-destre che per tutta la storia repubblicana ha tenuto ai margini il lepenismo. È questa tradizione il principale collante di un campo largo che per il resto è diviso quasi su tutto: sulle riforme macroniane, a cominciare da quella delle pensioni, sull’appoggio all’Ucraina, sulla gestione di immigrazione e sicurezza, e pure sui patti di desistenza indispensabili per spuntarla domenica prossima. Anche in Francia è faticoso superare le differenze identitarie, e se le classi dirigenti possono almeno provarci non è detto che gli elettorati le seguano.
Per dare un’idea: alle Presidenziali del 2022, nella sfida diretta Macron-Le Pen, il 17 per cento degli elettori della sinistra-sinistra di Jean-Luc Melenchon, in odio al macronismo, si dissero disponibili addirittura a votare per la regina della destra (e il 44 per cento si rifiutò di scegliere tra i due contendenti). Per dare un’altra idea: solo sei mesi fa la riforma dell’immigrazione del governo, osteggiata dalla sinistra radicale, è passata con i voti sovranisti che l’hanno giudicata una “indiscutibile vittoria ideologica”. Se da noi destra e sinistra sono da sempre divise da una netta linea di confine, in Francia le cose sono assai più confuse e vaticinare sulle scelte dei cittadini al ballottaggio è quasi impossibile. La sobrietà con cui Le Pen e il suo capofila Jordan Bardella hanno commentato i primi risultati – «Non abbiamo ancora vinto niente» – conferma che la percezione di un risultato incerto è diffusa anche tra chi è arrivato indiscutibilmente primo.
Se i patti di desistenza funzioneranno a massimo regime, se il secondo turno consegnerà la maggioranza parlamentare al fronte anti-lepenista, Macron potrà uscire a testa alta da una sfida che quasi nessuno del suo mondo e del suo governo ha capito, condiviso, voluto. In caso contrario, prenderà corpo l’invettiva lanciata da oltre trecento intellettuali progressisti contro il Presidente che «giocando a poker con la democrazia» ha aperto le porte del potere alle destre, il giovane Napoleone che ha scommesso tutto su una possibilità che non c’era.