IL SONDAGGIO INTERNO
Sono oltre 18mila i militanti dem che hanno risposto al questionario preparato dai vertici del partito alla vigilia del congresso. Dalle risposte, tutto il disincanto della base lacerata da anni di battaglie tra correnti e mosse sbagliate
ROMA — Ce l’hanno ben chiaro, gli elettori del Pd, cosa non ha funzionato in questi anni e perché il partito che vorrebbero continuare a votare, nonostante tutto, è ridotto tanto male. Colpa, essenzialmente, della mancanza di una linea politica coerente e comprensibile, della rissa interna ormai permanente, della distanza dalle fasce più deboli della popolazione.
È quanto emerge da una prima scrematura degli oltre 18mila questionari — la famosa Bussola fortemente voluta dal segretario Enrico Letta — restituiti al Nazareno dai circoli e da quanti hanno deciso, pur da non tesserati, di partecipare al percorso costituente. Una consultazione che non ha le caratteristiche del sondaggio — sebbene a coordinare il progetto sia l’Ipsos di Nando Pagnoncelli — e tuttavia utile a sondare ansie e umori della base perpoi provare a costruire, sulla scorta delle loro indicazioni, il Partito democratico del futuro. Una volta completato il lavoro di analisi, infatti, i risultati verranno inviati ai membri del Comitato costituente, che dovranno tenerne conto nella stesura del nuovo Manifesto dei valori e dei principi.
Sono dunque i militanti a segnalare criticità e priorità attraverso le risposte (alcune multiple, altre aperte) alle 22 domande del questionario, che Repubblica ha potuto leggere in anteprima. Tre i problemi più gravi rilevati: «L’assenza di una linea politica chiara» per il 40 per cento; le «eccessive divisioni interne » per il 34; «il progressivo allontanamento dai ceti popolari» per il 30 per cento. All’interno di queste tre macro-aree, c’è un 28 per cento di operai che lamenta «un’eccessiva timidezza nel difendere le conquiste sociali e i diritti dei lavoratori»: probabilmente la causa principale dello spostamento a destra di questa fascia elettorale. In linea con il 28 per cento di giovani della Generazione Z che invece imputano al Pd di tenere «posizioni troppo liberiste e poco di sinistra » (contro un risultato medio del 16 per cento). Mentre il 26% di lavoratori autonomi e altrettanti Millennials individuano fra i guai peggiori «la scarsa dinamicità della classe dirigente» (contro un risultato medio del 22). Sempre la stessa da decenni, spinta dalla volontà di autoconservarsi, perciò da rinnovare per far entrare aria fresca.
Ma attenzione, ciò non significa che chi vota Pd sia attratto dall’uomo solo al comando, tutt’altro. Soltanto il 9 per cento di quanti hanno risposto ritiene che sarà il leader il fattore determinante per il successo del partito in fase di ricostruzione. È viceversa la comunità, il saper far squadra così com’era nello spirito del Lingotto, il patrimonio da riscoprire e valorizzare. Con un dato su tutti che dovrebbe far riflettere i big del Nazareno: il 70% degli elettori dem pensa che il pluralismo interno (leggi le correnti) non debba pregiudicare la capacità del nuovo segretario di esprimere una posizione univoca, sintesi delle diverse sensibilità. La «cacofonia» denunciata in Direzione da Letta, quel «ci stiamo facendo male da soli», deve insomma finire. A contare, d’ora in avanti, dovranno essere «le proposte concrete» (per il 35 per cento), insieme ai valori e agli ideali (32).
Basta discutere del proprio ombelico, di regole e galloni — è il senso del messaggio — è tempo di pensare ai problemi del Paese. Stabilendo una precisa gerarchia di priorità. Per il 50 per cento dei militanti la missione del nuovo Pd dovrebbe essere infatti la lotta alle disuguaglianze e la promozione di una transizione ecologica socialmente giusta. Due grandi temi da cui far discendere alcune battaglie, fin qui un po’ trascurate, che sono da sempre nel Dna democratico: per oltre la metà degli intervistati nei prossimi anni ci si dovrà battere per una sanità universale per tutti (56 per cento) e per la lotta al cambiamento climatico (51 per cento). Senza trascurare la lotta all’evasione fiscale (47 per cento) e il rafforzamento dell’istruzione pubblica (43).
E ce n’è anche per ex ministri e capicorrente, convinti che solo l’esercizio del potere è in grado di far assolvere al Pd la sua preminente funzione di perno del sistema. Per più della metà degli elettori, infatti, il primo dovere di un partito dovrebbe essere restare fedeli alla propria identità, anche se questo significa avere minori opportunità di governare. Sebbene non siano pochi, il 46 per cento, quelli che pensano il contrario: meglio cercare di governare, pure a costo di rinunciare ad alcuni punti identitari.