Sono trascorsi trentanove anni dall’uscita, nel 1985 tra i «Saggi» Einaudi, di Venezia e il Rinascimento di Manfredo Tafuri. Un libro i cui temi sono il risultato di un lungo periodo di ricerche che avevano avuto inizio alla fine degli anni sessanta, nel vicentino Centro internazionale di studi di architettura Andrea Palladio, con una fase di decantazione in una serie di saggi connotati da un preciso metodo multidisciplinare.

Tafuri si dedica con speciale impegno alla storia della Repubblica di Venezia, che nel Cinquecento decide di «divenire il mito di se stessa». La città lagunare è il suo osservatorio privilegiato (vi insegnerà dal 1968 al 1994, anno di morte), dove comprendere meglio le dinamiche del Classicismo, termine preferito all’«ambiguo» Rinascimento che, infatti, nel nostro caso, compare solo in copertina.

Nella prefazione alla ristampa di Quodlibet (pp. 450, € 35,00) Adriano Prosperi scrive che «la novità di questo libro permane intatta, ma il suo insegnamento ha fatto strada». Vero! Sarebbe stato quindi utile per il lettore sapere quali sviluppi ha avuto la ricerca tafuriana, in altre parole non celare dietro la «storicità del testo» l’indicazione delle plurime direzioni che hanno preso le «costellazioni instabili» con le quali Tafuri ha ordito il suo racconto del «lungo Rinascimento» a Venezia: singolare affresco delle mentalità religiose, scientifiche, politiche, militari e naturalmente architettoniche, artistiche e letterarie. Era così difficile procedere a una critica del testo?

A scorrere i più recenti studi, si sarebbe confermato l’impianto tafuriano, comprendendo come le sue tesi abbiano influenzato la storiografia architettonica a lui successiva: quella che ha guardato alla terraferma veneta (Battilotti), all’architettura come «fenomeno urbano» (Calabi), al ruolo del potere dogale, del patriziato e dei «tecnici» (Morresi) o, ancora, ad alcune momenti dell’opera di Palladio e di altri architetti (Beltramini, Burns).

Quale, quindi, l’importanza del libro del «nostro Wittkower»? Di certo c’è l’avere sottratto la storia dell’architettura di Venezia al «provinciale ghetto» nel quale alcuni «cultori» l’avevano posta esaltando le «forme sensibili» di un insieme di monumenti e palazzi. Queste forme, infatti, da se stesse «nascondono accuratamente – scrive Tafuri in premessa – la storia della loro genesi e ancor più nascondono le scelte perdenti».

Le storie «altre» qualificano l’ars aedificandi veneziana, letta in rapporto alla moltitudine di fermenti e conflitti, sorti da una serie di eventi di natura militare, economica e religiosa, quali la sconfitta nel 1509 con le forze francesi di Luigi XII (battaglia di Agnadello), l’apertura di nuove rotte marittime e la diffusione del riformismo erasmiano contro la Chiesa di Roma, che causarono, forse per la prima volta con questa intensità, la messa in discussione dell’egemonia veneziana, ovvero il primo visibile segnale dello sfaldamento della mercatura, i cui valori rappresentavano lo «strumento di grandezza della Repubblica».
Nel passaggio dal primo al secondo Cinquecento Tafuri compone una scena affollata di figure, più che di architetture.

Si inizia con il magistrato Nicolò Zen che agogna l’armonia sociale nel rispetto della tradizione eretta sui miti fondativi della città lagunare, e si termina con le tesi di Alvise Cornaro e Cristoforo Sabbadino rivolte alla «riprogettazione» del bacino marciano e dei territori extralagunari.

Il primo arriva a immaginare mura a protezione del tessuto urbano labirintico e, nel bacino di San Marco, un teatro all’antica e un «vago monticello»; il secondo, da «tecnico» (proto), intende razionalizzare, con canali e una rete di rii secondari, il sistema terracqueo lagunare perché la terra non si sciolga più tra acque dolci e salate.

L’oscillazione tra l’empiria tradizionale, governata dalla «prudenza» delle magistrature veneziane, e l’utopia affidata alla «virtù del progetto», è il carattere che connoterà l’architettura veneziana. Dirà l’architetto «romanista» Jacopo Sansovino: una città unicae possibile, in divenire tra le «impossibilità».
Nelle «mentalità patrizie» delle famiglie «papaliste» Tafuri cerca, secondo il metodo indiziario di Carlo Ginzburg, le «spie»: quelle famiglie, pur bendisposte verso le «sperimentazioni tosco-romane» di Sansovino, e poi di Serlio, Sanmicheli e Palladio, restano agganciate al rigorismo tradizionalista, che considera «infondata» ogni res aedificatoria, anche se inspirata all’Antico. Così, la rappresentazione di Venezia avanza tra il vocarsi erede della missione imperiale di Roma e il celebrare la libertà dei«primitivi costumi», tra neobizantinismo e umanesimo.

Diversi sono gli «indizi» che Tafuri segue per capire il difficile procedere della novitasclassicista. I primi sono quelli presenti nelle complesse vicende della rifondazione della chiesa di San Salvador, dove un nuovo ordine matematico-prospettico (Tullio Lombardo) si afferma senza ledere gli originari significati simbolici. Gli altri interessano le Scuole Grandi (della Misericordia, di San Rocco), pronte a emularsi con architetture magniloquenti: l’Arsenale, luogo degli esperimenti di «architectura navalis» dell’umanista Vettor Fausto, il nuovo ponte di Rialto, ma anzitutto il foro marciano, che per il doge Andrea Gritti «parla in modo esplicito di Venezia come “nuova Roma”».

L’artefice della sistemazione del primo «fuoco urbano» veneziano è Sansovino, con il completamento delle Procuratie Vecchie, la Libreria Marciana, la Zecca, la Loggetta sotto il campanile e la chiesa (demolita) di San Giminiano. Tafuri interpreta l’aspetto empiristico del classicismo sansoviniano e, con acume, lo confronta con l’ars combinatoria di Palladio (chiesa di San Giorgio, delle Zitelle, del Redentore), la quale formula in Laguna la più «realista» delle proposte architettoniche, che rimarrà inascoltata, come «cristallizzati» saranno i contributi scientisti, filosofici e letterari dell’Umanesimo: «problemi aperti della moderna cultura europea» dei secoli dopo.

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