Lucia Annunziata
L’Unione Europea, l’Italia in Prima fila, lancia un’operazione navale nel Mar Rosso, il più pericoloso, nei fatti l’unico, teatro di guerra che può portare a un allargamento globale del conflitto. L’obiettivo di Bruxelles è approvare in via definitiva la missione nella riunione dei ministri degli Esteri del 19 febbraio; e in Italia ci si avvia a questa discesa in campo, che può cambiare le dimensioni della guerra in corso, con una sorta di indifferente acquiescenza.
Il riferimento non è al governo, che ha tutto l’interesse a non destare preoccupazioni. Curioso è, invece, che la discussione che si accende quando si discute di guerra e pace in questo caso tace, sostituita da una sorta di svogliato “Ok, dateci chiarimenti”. Non è un rimprovero, questo. Ma un invito a scuotersi, si. Probabilmente, infatti, non è ancora chiaro all’opinione pubblica (e politica) la rilevanza di questo passaggio: nel Mar Rosso gli Stati Uniti sono intervenuti direttamente in un conflitto dopo molti anni di un attivo disimpegno indiretto. Accorciando così pericolosamente la sfida in atto con la Cina, per la supremazia politica globale.
La tenuta degli Stati Uniti
Quali interessi abbiano obbligato Washington a fare questo passo, difficile anche per loro, è la chiave di volta per capire la rilevanza della nuova situazione: sul Mar Rosso è in gioco la tenuta da potenza globale degli Usa, fondata sul suo essere padrone dei mari. Una supremazia costruita dagli Americani con la vittoria nella seconda guerra Mondiale (e lo sforzo bellico dopo la sconfitta di Pearl Harbour). La Us Navy è oggi una delle strutture militari più potenti del mondo, grazie a una schiacciante superiorità tecnologica, dedicata ad assicurare quello che è la principale garanzia del mercato: «La libera circolazione di merci e persone». In questo senso, il blocco del Mar Rosso da parte degli Houti, non poteva essere accettato.
Quali interessi abbiano obbligato Washington a fare questo passo, difficile anche per loro, è la chiave di volta per capire la rilevanza della nuova situazione: sul Mar Rosso è in gioco la tenuta da potenza globale degli Usa, fondata sul suo essere padrone dei mari. Una supremazia costruita dagli Americani con la vittoria nella seconda guerra Mondiale (e lo sforzo bellico dopo la sconfitta di Pearl Harbour). La Us Navy è oggi una delle strutture militari più potenti del mondo, grazie a una schiacciante superiorità tecnologica, dedicata ad assicurare quello che è la principale garanzia del mercato: «La libera circolazione di merci e persone». In questo senso, il blocco del Mar Rosso da parte degli Houti, non poteva essere accettato.
Ma esiste ancora questa supremazia Usa? Tra i dubbi, di cui ultimi espressi dal WSJ (ne parleremo più avanti), lo scontro per il controllo dello spazio marittimo è rimasto fondamentale anche in epoca di economia digitale, perché rimane il passaggio delle principali infrastrutture: oleodotti, gasdotti, cavi internet etc, passano sui fondali marini e oceanici e il controllo, monitoraggio e protezione di questi impianti è necessario per garantire l’approvvigionamento di materie prime indispensabili per la produzione energetica e per le comunicazioni. Nasce così la guerra per il controllo del Grande Blu si cui si occupa in un brillante saggio “Il dominio dei mari” di Tommaso Braccini, un contributo della “Storia della civiltà Europea” curata da Umberto Eco in una edizione, quella che citiamo, del 2014.
Il confronto con la Cina
Fra Cina e Usa si confrontano oggi due «strategie completamente agli antipodi», con la Cina potenza «di terra» e gli Usa potenza «marittima». La Cina tuttavia ha da tempo spostato il suo sguardo sul mare, che per uno Stato grande esportatore rappresenta il raggiungimento del «monopolio assoluto del commercio mondiale, e quindi la capacità di influenzare la politica globale».
Fra Cina e Usa si confrontano oggi due «strategie completamente agli antipodi», con la Cina potenza «di terra» e gli Usa potenza «marittima». La Cina tuttavia ha da tempo spostato il suo sguardo sul mare, che per uno Stato grande esportatore rappresenta il raggiungimento del «monopolio assoluto del commercio mondiale, e quindi la capacità di influenzare la politica globale».
«Gli Stati Uniti nascono invece come potenza sorta dal mare. È il mare ad aver fatto scoprire l’America, è il mare ad aver unito (e diviso) colonie e madrepatria, ed è il mare ad aver rappresentato insieme all’epopea del West la grande sfida degli uomini che hanno costruito il mondo Oltreoceano. Questa essenza degli Stati Uniti si è riversata anche nella cultura politica e militare di Washington e dintorni». Strategia fondata sulle teorie di Alfred Thayer Mahan, che «gli Stati Uniti sarebbero diventati egemoni sulla terra solo se avessero controllato le vie di comunicazioni marittime, a partire dai cosiddetti colli di bottiglia, i choke points».
Se oggi si osservano, infatti, i posizionamenti della Marina Usa, «i più importanti colli di bottiglia del mondo, non è difficile tratteggiare anche le rotte dell’area di influenza americana e della presenza delle forze Usa. Lo è Gibilterra, lo è Suez, dove l’Egitto si conferma da decenni partner fondamentale di Washington, il Bosforo, grazie all’appartenenza alla Turchia (potenza Nato), Bab al-Mandab ha il controllo da Gibuti e coadiuvato dalle forze Usa impegnate nel contrasto alla pirateria, ad Al Shabaab e nelle operazioni in Yemen. Lo stretto di Hormuz è un nodo fondamentale della strategia americana e controllato da missili, basi navali dispiegate nel Golfo Persico e aerei pronti a all’azione. Lo Stretto di Malacca, passaggio fondamentale per i porti dell’Asia orientale, è monitorato dagli alleati del Sud-est asiatico in funzione anti cinese e dalle forze dello United States Indo-Pacific Command. Infine, Panama, Stato che controlla il canale che unisce Atlantico e Pacifico, è da sempre considerato un partner intoccabile di Washington, tanto che i suoi rapporti con la Cina sono ritenuti estremamente pericolosi dall’intelligence Usa». Ma anche Pechino ha il «medesimo obiettivo con Taiwan, Malacca, Bab al-Mandab, Suez, Panama e Gibilterra. Lo fa attraverso porti, infrastrutture, alleanze commerciali o prime timide avvisaglie di basi militari (vedi Gibuti). Ma è chiaro che le teoria di Mahan siano arrivate anche nei palazzi dell’establishment cinese».
La Cina, inoltre, «si muove sempre di più per ottenere nuove basi marittime soprattutto nel Corno d’Africa. La base navale di Gibuti rappresenta il primo avamposto militare della repubblica popolare all’estero, in uno dei crocevia commerciali più importanti a livello globale. Dal Canale di Suez transita, infatti, una grande percentuale delle merci a livello globale diretta verso l’Europa, che è il maggior importatore di merci cinesi». La Cina «cerca soprattutto di non restare chiusa nella morsa che gli Stati Uniti stanno cingendo intorno al Mar Cinese, con le basi in Giappone, Sud Corea e l’accesso alle basi di Taiwan, senza contare la recente autorizzazione all’utilizzo delle basi nelle Filippine concessa agli Usa dal neo-presidente Marcos».
La mappa che qui si delinea prova che a partire dal Mar Rosso le intersezioni di vicinanza in questa sfida si fanno molto strette. Nel caso di conflitto tra le due potenze, il controllo dello Stretto di Malacca, il più importante crocevia a livello globale per la Cina, in cui transitano quasi tutte le merci a lei dirette o da lei provenienti, sarà decisivo.
La potenza navale americana
Ma questa potenza navale degli Usa esiste ancora o è un ricordo del passato? si domanda, sul WSJ, Jerry Hendrix. Un nuovo rapporto “Measuring and Modeling Naval Presence” del Sagamore Institute, citato dal WSJ un po’ di settimane fa, trae una negativa conclusione basandosi sui recenti attacchi dei ribelli Houthi nel Mar Rosso: la flotta americana non fa più molta paura. Le cause di quest’improvviso declino non risiedono nelle caratteristiche fisiche delle singole navi da guerra americane. I cacciatorpediniere della classe Burke, che comprendono la Uss Carney, rimangono i migliori cacciatorpediniere attualmente in servizio attivo in tutto il mondo, dice il rapporto.
Ma questa potenza navale degli Usa esiste ancora o è un ricordo del passato? si domanda, sul WSJ, Jerry Hendrix. Un nuovo rapporto “Measuring and Modeling Naval Presence” del Sagamore Institute, citato dal WSJ un po’ di settimane fa, trae una negativa conclusione basandosi sui recenti attacchi dei ribelli Houthi nel Mar Rosso: la flotta americana non fa più molta paura. Le cause di quest’improvviso declino non risiedono nelle caratteristiche fisiche delle singole navi da guerra americane. I cacciatorpediniere della classe Burke, che comprendono la Uss Carney, rimangono i migliori cacciatorpediniere attualmente in servizio attivo in tutto il mondo, dice il rapporto.
Colpevole è piuttosto «la contrazione della flotta americana – passata da un massimo di 594 navi durante l’amministrazione Reagan nel 1987 a 291 navi oggi – e la rapida espansione della marina cinese – composta oggi da 340 navi da guerra e che si prevede salirà a 400 navi entro il 2025. Fattori non fisici mantengono la flotta statunitense competitiva nella deterrenza convenzionale, ovvero la percezione globale che gli americani sono disposti a difendere i loro interessi e che le loro forze armate sono equipaggiate, e addestrate per andare in guerra con un minuto di preavviso… Ma i numerosi insuccessi in politica estera dell’amministrazione Biden in Afghanistan, Ucraina e Medio Oriente hanno indebolito la volontà di combattere degli americani e mostrato ai nemici del Paese una debolezza di leadership e di strategia. È, inoltre, evidente che Washington non ha mantenuto la sua attuale forza di combattimento. Persino le armi di ricambio per gli arsenali delle navi scarseggiano. Il mondo se ne accorge, il che potrebbe spiegare l’audacia dell’Iran di fronte ai pattugliamenti navali statunitensi».
Tutte queste analisi restituiscono bene non solo il peso dell’intervento Usa, ma anche l’incertezza dei suoi risultati. La missione europea che nasce in questi giorni si rivela di conseguenza essa stessa molto più complessa e rischiosa di quel che per ora si dice: «Difensiva ma armata, per proteggere i nostri mercantili». Al di là dunque delle intenzioni questa missione europea ha necessità di esser ben discussa, ben conosciuta, in maniera che la decisione venga presa ad occhi a aperti.