
The Islander
26 Maggio 2025
Il diritto di vivere e quello di morire
26 Maggio 2025Firenze Due mostre al Museo Novecento, e non solo: le opere dello scultore inglese anche in piazza della Signoria e a Palazzo Vecchio
Artisti dissidenti sotto il fascismo insieme alla ragazza con il cellulare di Thomas J Price
di Rachele Ferrario
«Sembra che nessuno si accorga che questi sono tempi pericolosi ma straordinari. Se io potessi, per una attenzione del Padreterno, scegliere un momento nella storia e un mestiere, sceglierei questo tempo e il mestiere del pittore. Le condizioni oggi sono storicamente privilegiate, sempre che si abbia la forza e la libertà interna necessaria in tempi così pericolosi». È il novembre 1938. Sulle pagine del «Selvaggio» Renato Guttuso scrive queste parole che suonano come un presagio. Nel 1943, quando è ormai chiaro che l’Italia è sconfitta sul fronte politico, militare e morale, Guttuso dipinge Massacro, corpi straziati nella fossa comune. La tela non è grande, ma la pittura è potente, come il sangue versato dai civili inermi nella sua Sicilia, dove sono appena sbarcati gli americani. Sul retro, Guttuso scrive: «23 – luglio – 43/ giorno della Presa di Palermo». Lui è rifugiato a Quarto, Genova. Ritrae Alberto Della Ragione, un uomo buono, collezionista intelligente, generoso, che al tempo del razzismo dà asilo e dignità ai profughi e ai perseguitati. Sul retro della tela Guttuso scrive: «25 luglio 43 fine del fascismo». Sappiamo ora che fu l’inizio di un’altra guerra. Ma se Massacro è il manifesto di quella stagione, che da «pericolosa e straordinaria» s’è trasformata in tragedia, il volto di Alberto Della Ragione è l’incipit della mostra che al Museo Novecento di Firenze, diretto da Sergio Risaliti, racconta come durante il fascismo alcuni artisti resistono e dissentono, e come sotto la dittatura e in piena guerra si possa scegliere la militanza civile, etica, politica.
Rileggere nelle vite e nelle opere dei protagonisti l’e-spressione del «no» al regime è necessario. Scipione (Gino Bonichi), morto nel ’33 a ventisette anni, dipinge un’Apocalisse, una preghiera di salvezza: tre uomini nudi guardano il cielo, uniti da raggi luminosi rossi come quelli da cui Francesco riceve le stigmate. Mario Mafai con la sua Fantasia di corpi dalla testa mozza, busti impalati e sagome nere alla Goya nel 1940 inscena l’indicibile tra sadismo e violenza. Antonietta Raphaël, donna colta e intelligentissima, a Roma nella sua casa di via Cavour ha fondato con Mafai una scuola, ma ora è costretta a nascondersi con le figlie. In mostra c’è pure Emilio Vedova, partigiano e resistente, con una crocifissione, un groviglio di corpi e di anime. Tutti loro affidano ai segni anti-monumentali e al colore il dramma di una generazione: e ci fanno riflettere sul nostro tempo, che non è un tempo di pace.
Spesso gli artisti hanno reagito isolandosi. Matisse durante la guerra sperimenta il colore, Picasso si arrocca nella sua pittura dopo aver urlato al mondo l’efferatezza dell’attacco terroristico di Guernica, le bombe di tedeschi e italiani sulla folla inerme, massacrata nel giorno di mercato. A ottant’anni dalla Liberazione è importante far rivivere ciò che la vita di Alberto Della Ragione e quella dei suoi artisti hanno significato, celebrando il dono che l’ingegnere fece nel 1969 alla città di Firenze, appena rinata dall’esondazione dell’Arno. Tanto più che il Museo Novecento è il primo ad accogliere le masse dell’«overturism» in una delle più belle piazze: da una parte la chiesa di Santa Maria Novella, con la facciata di Leon Battista Alberti, il Crocifisso di Giotto, il chiostro affrescato da Paolo Uccello; dall’altra il palazzo con tre piani espostivi, residenze d’artista e un giardino. Un luogo caro agli studenti (dalle elementari in su), poco visitato dai fiorentini ma amato dagli stranieri, i primi a cogliere gli otto secoli di storia che dialogano nella piazza e ad apprezzare le mostre d’arte contemporanea del museo: compresa quella di Thomas J Price, che da queste sale si collega a quelle di Palazzo Vecchio e a piazza della Signoria.
Quella grande statua ci parla di noi: di ieri e di oggi,
di Umanesimo
e di tecnologia
Qui in mezzo ai capolavori della scultura rinascimentale, tra la copia del David di Michelangelo — simbolo del potere civile — e il Perseo di Cellini — che rappresenta l’arte e la forza del governo —, c’è anche la ragazza in bronzo dorato di Price. È fuori scala, non è sul piedistallo, fissa il cellulare. Quando la piazza è molto gremita non si nota subito e questo crea lo stesso disorientamento che si prova quando si alza lo sguardo dallo schermo per tornare alla realtà. La ragazza ci parla di noi, di passato e di futuro, di Umanesimo e di intelligenza artificiale, di come la tecnologia possa tornare a servire l’arte e la bellezza.
Nelle sale di Palazzo Vecchio e di un potere antico Thomas J Price s’è mosso con garbo, invitandoci a riflettere sul luogo e sui simboli, portando i nostri occhi oltre le finestre, dove si scorge la cupola di Brunelleschi e la linea che unisce la grande tradizione di Firenze, capitale di arte e cultura dai tempi dei Medici. Nella sala dedicata proprio a uno di loro, Giovanni de’ Medici, eletto papa nel 1513 con il nome di Leone X, Price ha collocato invece un piccolo volto di una giovane donna in marmo verde. Non poteva sapere dell’elezione di Robert Francis Prevost, che ha preso lo stesso nome, Leone XIV. Ma ora la sua critica alle gerarchie culturali e al sistema dei privilegi sociopolitici in un tempo di guerre non ha più solo un valore estetico. È anche etico: come accade «in tempi pericolosi ma straordinari».