IL CONTRARIO DEL TURISMO
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16 Luglio 2023Milan Kundera — scomparso l’11 luglio 2023 a 94 anni — ha incarnato un paradosso splendidamente novecentesco: se da un lato ha vissuto l’arte del romanzo come una specie di partito preso, dall’altro ha fornito un contributo essenziale alla sua inesauribile dissoluzione. Ho parlato di paradosso, non di aporia. Per Kundera, infatti, il romanzo è, e non smetterà mai di essere, uno sterminato spazio di libertà, un impareggiabile strumento di conoscenza, un formidabile invito all’eresia. «Per la ricchezza delle sue forme, per l’intensità vertiginosamente concentrata della sua evoluzione, per il suo ruolo sociale, il romanzo europeo (così come la musica europea) non ha eguali in nessun’altra civiltà».
Ciò spiega la natura promiscua, la vocazione libertina, l’inclinazione edonista del vero romanziere, che in quanto tale «non deve render conto a nessuno, tranne che a Cervantes». Chi è il romanziere? Uno che «non dà grande importanza alle proprie idee». I romanzieri che Kundera legge, chiosa, raccomanda sono tutti della stessa pasta: che si chiami Cervantes o Diderot, che si chiami Flaubert o Kafka, che si chiami Broch o Gombrowicz, il romanziere caro a Kundera è sempre e soltanto colui che «insegue una forma».
Che non basti questo a spiegare la sordità di Kundera — venata com’è di diffidenza e avversione — nei confronti dell’opera di Dostoevskij. Ciò che lo irrita è «il clima dei suoi libri, un universo nel quale tutto diventa sentimento — in altre parole: dove il sentimento viene innalzato al rango di valore e di verità». A quel tipo di romanziere iper-emotivo Kundera oppone il modello del tutto antitetico dell’ironico saltimbanco, dell’istrione scettico, serafico e dolente. «Nessun romanzo degno di questo nome prende seriamente il mondo». «Solo il romanzo ha saputo scoprire l’immenso e misterioso potere della futilità».
Non importa che la prima frase tragga spunto dallo sconfinatamente amato Tristram Shandy di Sterne e la seconda faccia da chiosa a un celebre passo della Bovary. Ciò che conta è come entrambi calzino a pennello ai romanzi di Kundera stesso, soprattutto ai primi, scritti ancora nella lingua dei suoi avi.
Confesso che da poco, per suggerimento di un amico, ho riletto Lo scherzo, il romanzo di esordio di Kundera. Che libro! Che voce! Che incredibile padronanza formale! Si tratta di uno degli indiscussi capolavori della letteratura mitteleuropea del secondo dopoguerra.
Kundera appartiene a quella ristretta schiera di scrittori che, come avrebbe detto mia nonna, sono nati imparati. Il suo stile cambierà, così come i temi e le ambientazioni, per via dell’esilio e della scelta oltremodo radicale di scrivere in francese. Ciò che non è mai venuto meno è quel modo tutto suo di addensare le frasi, la musica dello stile, il temerario gusto per la rapsodia. «Lo spirito del romanzo è lo spirito di complessità. Ogni romanzo dice al lettore: “Le cose sono più complicate di quanto pensi”. È questa l’eterna verità del romanzo, sempre meno udibile, però, nel frastuono delle risposte semplici e rapide che precedono la domanda e la escludono. Per lo spirito del nostro tempo, o ha ragione Anna o ha ragione Karenin, e la vecchia saggezza di Cervantes, che ci parla della difficoltà di sapere e dell’inafferrabile verità, sembra ingombrante e inutile».
Quest’ultima citazione è tratta da un libro scritto nel lontano 1986. Fa impressione constatare quanto sia profetica, quanto valga più per noi che per i lettori di allora. Chi parla della morte del romanzo forse allude a questo. Non all’incapacità espressiva dei nuovi romanzieri, ma all’inutilità del loro campo di indagine. Scrivere di quanto la vita è complessa, di quanto la verità sia ineffabile e ingannevole non è un esercizio che oggigiorno possa godere di grande popolarità.
Non sorprende che a un certo punto della sua vita, all’apice della maturità, Kundera abbia scelto una contegnosa retraite. Chi è portato a liquidarla come un atto di orgoglio, non tiene conto di quanto una decisione così severa sia perfettamente consustanziale all’idea di sé che Kundera non ha mai smesso di perseguire. La letteratura appartiene ai romanzi, non certo ai romanzieri. I romanzi sono lì, a portata di mano, zeppi di cose belle e di cose brutte, di immagini sublimi e di oscenità. I romanzi invecchiano e ringiovaniscono a seconda di chi li legge. Il bello è che la morte non li riguarda. Quella spetta solo ai romanzieri.