L’INTERVISTA
Nel trentennale della morte un docufilm celebra il talento unico di Gian Maria Volontè Lo ricordiamo con la figlia Giovanna
di
Piero Melati
L’attore che disse no alCasanova di Fellini è spesso primo nelle classifiche dei più grandi interpretiitaliani di ogni tempo. Non sorprenda: non solo i nove premi in carriera (tra cui l’Oscar del 1971 perIndagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto) ma ora, a ulteriore conferma, un primato che viene celebrato da sedici colleghi e registi nel docufilm Volontè.
L’uomo dai mille volti,scritto e diretto da Francesco Zippel in occasione del trentennale della morte, presentato alla Mostra di Venezia e nelle sale il 23, 24 e 25 settembre. La chiave è forse nel titolo: nei panni di Gian Maria Volontè è passata la storia del cinema italiano. Una memoria custodita dal 2003 in un’arca che è un festival in Sardegna, “La valigia dell’attore”, diretto dalla figlia attrice Giovanna Gravina Volontè.
L’abbiamo sentita.
Lei vive alla Maddalena dal ’95, l’anno successivo alla morte di suo padre, il quale passava tutto il suo tempo libero in barca. Diceva: voglio riportare in terra l’essenzialità del mare.
«Aspirava a vivere moltosemplicemente, come si fa tra le onde. Era per lui uno spazio di riflessione. In mare meditava tanto, anche sulle sue letture. Amava quella vita».
La sua nascita, Giovanna, nel 1961, fu uno scandalo.
«Specialmente per mamma, l’attrice Carla Gravina. Dino De Laurentiis le rescisse il contratto per cinque film. Aveva successo, ma ora era una ragazza madre, compagna di un uomo già sposato.
Si dice sempre che erano altri tempi. Non è vero, sono vicinissimi. La donne soffrono ancora».
Nel film di Zippel lei ha detto: mio padre non sopportava le ingiustizie, si è battuto per tante cause. Non è mai stato percepito soltanto come attore.
«Proprio così. Era un uomo che ha utilizzato come mezzo il suo mestiere, per denunciare. Aveva talento e bravura non comuni, però partiva sempre dal voler comunicare qualcosa. Aveva trovato un mezzo fantastico per la sua continua denuncia».
Si dice sempre che fosse rimasto legato al suo dolore: il padre fascista, il suicidio del fratello.
«Il suo dolore ha influito. Ma si trascura l’altro aspetto: era un uomo molto ilare, gioioso, faceva scherzi tremendi e se ne divertiva molto. Gli era rimasta una parte bambina e giocosa».
Faccio solo un film all’anno, diceva, e lo scelgo in base allo spessore culturale.
«Per questo venne emarginato. Se guarda la filmografia, negli ultimi anni non ha mai lavorato in Italia.Un attore che dava fastidio».
Nel film di Zippel la regista Von Trotta dice: diventava il personaggio che doveva interpretare. Si infilava dentro il corpo e l’anima.
«Era mostruoso. Per me è stato complicatissimo pranzare con Moro o con Mattei, mentre li interpretava sul set. Spesso mi lasciava vedere i libri che studiava per prepararsi. Per Moro consultòmoltissimi documenti. Ora lo fanno in tanti, allora era un metodo nuovo. Oggi mi commuove incontrare ragazzi che non erano nati ma che scoprono i suoi film. In tanti hanno scelto il mestiere dell’attore dopo aver visto Indagine su un cittadino. Lui ne sarebbe felice».
I due Moro, quello di “Todo Modo” da Sciascia e l’altro del rapimento ne “Il caso Moro” diGiuseppe Ferrara.
Completamente diversi tra loro.
«Con Ferrara ha toccato le corde più umane di un uomo disperato, abbandonato dal suo partito, affetto da una delusione profonda.
Aggiunse una cosa sua, il riferimento alla base di sommergibili alla Maddalena»
Da “Indagine…” a “Sacco e Vanzetti”, da “Caravaggio” a “La classe operaia va in paradiso”, Moro, i film tratti da Sciascia, Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”: ha interpretato la storia d’Italia…
«Dopo la sua morte, sono passati dieci anni prima che riuscissi a rivedere quei film, anche se ormai non ero più la bambina che gli pianse sulle ginocchia, quando vedemmo insieme in tv la morte del suo Caravaggio. Avevo cinque anni e lui dovette dirmi: Giovanna, non sono morto davvero, sono qui. Da adulta, con distacco, mi sono resa conto del lavoro straordinario che ha fatto».
Era più vero del vero, dicono tutti nel film di Zippel. Ha inventato l’attore moderno, ha aperto la strada all’uso della lingua, faceva cose che poi i registi erano costretti a montare.
«Dava sempre un contributoconsapevole, ma diceva anche che non esisteva un suo cinema, ma soltanto il cinema d’autore.
Riteneva importantissimi gli incontri che ha fatto. Oggi rivedi i suoi film e ti accorgi che non sembrano affatto di cinquant’anni fa».
Sosteneva che il lavoro dell’attore è disciplina.
«Come si deve essere disciplinati in barca. Fondamentale per la salvezza».
In “Indagine su un cittadino…” ha inventato un siciliano inesistente ma più efficace del dialetto vero.
«Sì, un linguaggio che non esiste.
Aveva un ottimo orecchio, sapeva acchiappare quelle cadenze evidenti che fanno carattere e natura».
Nel ’72 a Cannes Palma d’Oro in tandem per Petri (“La classe operaia va in paradiso)” e Rosi “Il caso Mattei”), due film in cui era il protagonista. Fu clamoroso.
«Era contento di ricevere premi, ma poi se li perdeva. Li regalava, se li dimenticava in giro. Aveva conservato solo il Leone d’Oro alla carriera».
Muore a 61 anni, sul set del film “Lo sguardo di Ulisse” di Angelopoulos.
«Interpretava il direttore della cineteca di Sarajevo. La memoria era per lui la cosa più importante.
Diceva di essere stanco del mondo, di un lavoro e un contesto che cambiavano in peggio. Tutto quello che ha fatto lo ha lasciato per la nostra memoria collettiva».