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La regina di Firenze, di nome e di fatto, è un’Isabella D’Este glamour, nata tedesca di Hannover, ma ormai fiorentina, che fa, e ha fatto, del bello la propria vita. Regina Schrecker, musa di Andy Warhol, è oggi uno dei grandi marchi della moda italiana, che si misura anche nel costume teatrale, da Puccini a Dante, e nell’impegno sociale. Ha appena esposto i suoi abiti sontuosi, a Villa Morosini di Polesella. Ma lei, grazie al genio della Pop Art, è diventata un capolavoro prima dei suoi abiti.
Top model, stilista, imprenditrice: ma cosa sognava di fare da piccola Regina?
«Ero una bambina curiosa che disegnava sempre. Avevo in casa una mamma grafica, uno zio scultore e una nonna insegnante di pianoforte. L’arte era un po’ il mio destino».
Il vero maestro di vita però è stato il nonno…
«Nonno Walter era un severo generale prussiano ed è stata la persona più importante della mia vita. Pensi che mi dava lezioni di letteratura greca e romana fin da bambina, mi trattava un po’ da maschietto».
Che cosa le ha insegnato?
«A essere autorevole ma non autoritaria, a non aspettarsi le cose nella vita senza fare nulla, a contare solo su me stessa e a non dimenticarsi mai delle persone che hanno bisogno».
Le è toccato crescere in fretta comunque…
«Quando avevo 12 anni papà mi mandò a studiare al college all’estero: Inghilterra, Francia, Spagna, Svizzera. Ogni anno un paese e una lingua diversi».
E ne soffriva?
«Al contrario. Adoravo cambiare vita ogni anno. In Inghilterra sono stata persino invitata a un tea party della regina Elisabetta. Delle studentesse della mia scuola potevano andare solo in due e io ero una delle due».
Cosa vi siete dette tra regine?
«Non si può parlare con la regina, si può fare l’inchino, un sorriso, la riverenza e uscire di scena con educata eleganza».
Ha conosciuto anche re Carlo.
«Quando da giovani si viveva la Swinging London era uno di noi, la sera si andava da Annabel’s o al Playboy club. A quei tempi usciva con una mia compagna di scuola, forse prima di incontrare Camilla».
A 17 anni arriva a Firenze per studiare: è vero che diventa modella in un bar di Firenze?
«Da studentessa di Storia dell’arte frequentavo un bellissimo bar storico che adesso non c’è più, il Bar Giacosa di via Tornabuoni, e un giorno, sorseggiando in piedi il suo caffè, un signore, molto educato e molto distinto mi dice: signorina, mi scusi, ma lei non ha mai pensato di fare la modella? A quei tempi si diceva “mannequin”».
E chi era quel distinto signore?
«Il marchese Emilio Pucci in persona, uno dei padri del made in Italy. Gli risposi: mia mamma compra i suoi vestiti ma io a venire da lei non ci penso proprio».
E il marchese si offese?
«Abbastanza. Mi disse: lei sta rifiutando una chance unica al mondo. Nessuna signorina di buona famiglia rifiuterebbe un’occasione irripetibile come questa. Mentre stava andando via però gli dissi: se però a lei non dispiace il suo atelier lo visiterei volentieri».
Accettò?
«Certo, forse sperando che cambiassi idea. Era però un atelier fuori dal tempo, un po’ polveroso con tre ragazze non più tanto ragazze. Dissi a me stessa: questa non è la vita che fa per me».
Poi per fortuna ci ripensa.
«Mi iscrivo all’università a Milano, un giorno mentre sto andando a lezione, mi ferma un talent scout e mi fa la stessa proposta. Stavolta accetto. Finisco subito a fare Carosello: caramelle, formaggini, carne in scatola. A quei tempi ci si portava i vestiti da casa e ci si truccava da sole: io al primo appuntamento mi sono presentata con un Courregès folgorante. Carosello fu una cosa incredibile: era così popolare che mi riconoscevano per strada e in metropolitana».
Carosello con Enzo Jannacci, Walter Chiari, Johnny Dorelli…
«Con Jannacci c’era poco feeling, molto meglio Walter Chiari. Dorelli invece si era appena fidanzato con Catherine Spaak, ed era molto preso e quando c’era lei sul set non capiva più niente e andava in confusione».
Poi arrivano le passerelle internazionali.
«Eravamo top model prima delle top model, ma allora le passerelle erano show eleganti, le modelle non sfilavano come cavalli come succede oggi. Era però un periodo orribile. Abitavo a fuori Firenze e avevo la macchina blindata perché c’era il timore di sequestri. Ma New York era anche peggio, c’era una criminalità violentissima: a una mia amica buttarono dell’acido sugli occhi per svaligiare il suo appartamento».
E in quel periodo conosce Andy Warhol, il genio dell pop art
«Veniva alle mie sfilate, gli piaceva molto il mio modo di incedere in passerella. Il feeling è nato subito. Andavamo al Club 54 e in piccoli ristoranti russi dove era facile incontrare emigrati pieni di nostalgie e stilisti famosi».
Che uomo era?
«Un uomo controverso, molto legato alle radici slovacche, all’infanzia a Pittsburgh, alla sua arte. Ironico e timido, provocante e schivo, amabile e sprezzante. Era pieno di contraddizioni, anche portate all’eccesso, ma per me era un grande artista e un amico eccezionale».
E la Factory, lo studio di Warhol a Manhattan, com’era?
«Un luogo irreale, aperto a tutti, top model del momento e star di Broadway, fotografi famosi e band musicali. Un giorno Andy mi convoca lì e mi consegna al suo truccatore che mi spalma sul volto un fondotinta bianco che mi fa sembrare una geisha. Poi mi fa pettinare alla David Bowie e mi scatta 12 polaroid. Oggi sono custodite dall’Art Institute di Chicago insieme a quelle di Liz Taylor, Liza Minelli e Marilyn Monroe».
E da quelle foto crea un capolavoro.
«Ne scelse una e la trasformò in due serigrafie su tela, una su fondo bianco e una su fondo rosso. Fanno parte dell’omaggio che Andy volle fare ai grandi stilisti italiani: Armani, Coveri, Krizia, Versace e me. Oggi sono capolavori della Pop Art».
Le passerelle non le bastavano?
«Non volevo essere solo una bella statuina, volevo disegnare abiti e non solo indossarli. Volevo mettermi in gioco e dimostrare a me stessa di cosa ero capace. Così nel 1980 debutto con la mia griffe Regina Schrecker».
Lei definisce la sua moda bella, anticonformista e democratica: che cosa vuol dire?
«Bella perché nasconde i difetti e valorizza i pregi: per esempio mi piacciono più gli scolli sulla schiena che il decolleté davanti che non tutte si possono permettere; anticonformista anche perché combina materiali molti diversi tra loro e democratica perché non inavvicinabile: ho disegnato abiti per Postalmarket e biancheria intima per la Vestro. Più democratica di così…».
È vero che ha fatto un calendario con Margherita Hack?
«Sì, ma era per raccogliere fondi per una Onlus che si occupa di bambini affetti da epidermolosi bollosa meglio conosciuti come “bambini farfalla”. Margherita era incredibile, pazzesca. Cattivissima».
E disegnato foulard per i medici che hanno combattuto il Covid?
«Sono stati eroi. Ragazzi e ragazze meravigliose. Li ho incontrati allo Spallanzani di Roma, dove fu ricoverata la prima coppia cinese contagiata, e a Lodi, dove scoprirono il paziente zero. Hanno fatto un lavoro impressionante».
Il primo comandamento di un creatore di moda?
«Non copiare gli altri».
Il colore che ama di più?
«Il rosso».
E il profumo?
«Il mio».
Una modella indimenticabile.
«Iman, che è stata la moglie di David Bowie. Dire che fosse stupenda è dire poco».
La donna più facile da vestire?
«Nessuna donna è facile da vestire».
Meglio vestire l’italiana o la francese?
«Oggi è tutto uguale».
Che differenza c’è tra moda e stile?
«Lo stile e l’eleganza sono innati. Si possono imparare le buone maniere, il savoir faire, il bon ton, ma l’eleganza no. O ce l’hai o non ce l’hai. Con lo stile vesti bene anche un sacco di patate».
Sa attaccare un bottone?
«Sono di natura socievole. Diciamo che mi viene molto meglio attaccare bottone…».
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