IL MONTE DEI PASCHI
DI ANDREA GRECO
MILANO — A due mesi dalla ricapitalizzazione con cui Mps deve ripristinare il patrimonio i contorni dell’operazione si disvelano. E non sono così incoraggianti, dato che per parere dello stesso collegio sindacale della banca «il contesto pone, in linea di principio, incertezze rilevanti ». Ma il rafforzamento, imposto dal doppio obbligo del codice civile e della vigilanza bancaria europea, non può attendere né mutare: neanche davanti alla politica “azionista”, in subbuglio per il voto e dove molti, specie nel centrodestra, al vento elettorale riespongono la vela di una banca che resti pubblica.
Intanto emerge, nei documenti preparatori all’assemblea del 15 settembre che approverà l’aumento da 2,5 miliardi, che l’operazione è «scindibile ». Un tecnicismo per cui l’emittente potrebbe accontentarsi di una parte dell’importo: tanto più che il Tesoro, primo socio al 64%, il 23 giugno già formalizzò l’impegno per i suoi 1,6 miliardi. «Scindibile», che è la formula più usata, è il contrario di quanto Luigi Lovaglio, a Mps chiamato dal Tesoro per l’operazione, dichiarava alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle banche il 12 luglio: «l’aumento è inscindibile e a condizioni di mercato».
Cosa è cambiato da allora? Ci sono due possibili letture. Una implica che dopo i primi 1,6 miliardi – lo zoccolo duro che il socio pubblico verserà «entro il 12 novembre», quando la banca stima di chiudere l’operazione – potrebbero esserci successiveiniezioni di fondi privati, magari dal sospirato compratore che il Tesoro cerca da anni e non ha trovato nel tavolo con Unicredit un anno fa. Ma nessuno vede compratori dietro l’angolo, al punto che il governo Draghi ha appena ottenuto una proroga biennale dalla Commissione Ue, che dopo il salvataggio pubblico del 2017 impose di riprivatizzare Mps entro metà 2022. A meno che un compratore “di sistema” si affacci se l’aumento andasse male.
L’altra lettura è che nelle attuali condizioni macro e di mercato l’operazione possa essere snobbata dal 36% di azionisti privati, molti al dettaglio, e le banche firmatarie del consorzio garante abbiano indotto Mps ad aprirsi a più opzioni, per evitare eccessivi accolli di inoptato, come nel recente aumento Saipem. I nomi in campo per Mps finora sono otto, dai primi quattro joint global coordinator Bofa, Citigroup, Credit Suisse, Mediobanca, ai quattro joint bookrunners Santander, Barclays Ireland, SocGen, Stifel.
Per quanti siano, i miliardi che Mps raccoglierà – dopo i quasi 25 miliardi chiesti e bruciati in una dozzina d’anni – servono come l’aria alla banca senese. Purtroppo, però, si legge ancora nelle carte, gran parte dei denari andrà a coprire buchi del passato. Ci sono ben 4,664 miliardi di euro di vecchie perdite riportate a nuovo da spesare. Quasi 2 miliardi sono dei conti 2020, quando scattò la rottura dei minimi civilistici, da colmare entro due esercizi. In piccola parte Mps le coprirà con i 97 milioni dell’utile semestrale 2022, e con «327 milioni di riserve disponibili». Per il resto la banca conta sui soldi dell’aumento, e sull’abbattimento di patrimonio «mediante riduzione del capitale sociale da euro 9.195.012.196,85 a 4.954.119.492,44». Un’ultima parte dei fondi servirà al rilancio effettivo: «L’integrale esecuzione dell’aumento – si legge ancora – consentirebbe di realizzare circa 350 milioni di euro di investimenti tecnologici, e circa 820 milioni di costi di ristrutturazione» (3.500 le uscite concordate per fine anno), e a «rafforzare la posizione di capitale» ripristinando i requisiti di vigilanza tipo Mrel. I dettagli della complessa operazione lasciano «smarriti» i soci dell’Associazione Buongoverno Mps, che raccoglie le deleghe per l’assemblea.
Mps: ad oggi ogni giudizio è prematuro (7 agosto 2022)
di Pierluigi Piccini
Vediamo di sintetizzare cosa sta succedendo al Monte dei Paschi. Rapidamente. Ci sono tre fattori interessanti che denotano una certa positività: l’accordo per l’uscita volontaria di 3.500 dipendenti entro la fine dell’anno. L’allargamento del fondo di garanzia sull’inoptato. La riunione dell’assemblea per l’aumento di capitale fissata per il 15 settembre, lontana dal giorno delle elezioni. Su quest’ultima, ovviamente, pesa il contesto in cui si svolgerà poi il reale aumento di capitale. Aumento di capitale che si realizzerà in un contesto economico che oggi è difficile da prevedere. Il fattore temporale è decisivo. I segnali che arrivano non sono fra i migliori. Non più tardi di oggi Moody’s ha abbassato il giudizio sull’Italia, confermando, però e per fortuna, il rating.
Le note negative che vengono evidenziate dalla lettura della semestrale sono: il fatturato che diminuisce di 1.592 milioni di euro. Una riduzione delle quote di mercato del 4,46% e un cost income ancora troppo elevato (70,2%) rispetto al sistema, anche se diminuito dello 0,5%.
Il giudizio sull’intera operazione messa in campo dal MEF e accettata dalla Comunità Europea è ancora in sospeso. Si potrà vedere qualcosa solo con la prima trimestrale del 2023. Allora potremo capire se ci sono dei segnali, anche piccoli, sulla riorganizzazione operativa che potranno far sperare sul futuro del Monte. Ad oggi ogni valutazione è prematura.